Una giornata particolare. Era di mercoledì. “L’Italia è il Paese che amo”, l’incipit tragico e ipocrita. Il 26 gennaio del 1994. La “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, oggi pregiudicato ed ex Cavaliere. Un quarto di secolo dopo B. ha 82 anni e si prepara alla sua ennesima campagna elettorale, quella per le Europee del 26 maggio. Ma stavolta si candida non per vincere, bensì per impedire la lenta estinzione di Forza Italia sotto le due cifre. Oggi è l’epoca del sovranismo nel centrodestra e il leader indiscusso è il leghista pigliatutto Matteo Salvini, che ha la metà degli anni di Berlusconi. Un epilogo impensabile per l’ex Cavaliere quando il 26 gennaio del 1994 invase le tv degli italiani dalle 17.30 alle 24 con il suo videomessaggio della durata di nove minuti e trenta secondi. Un monologo senza contraddittorio, sintesi di una traiettoria delineatasi nell’arco di un biennio. L’idea di Forza Italia fu partorita già nel 1992 e un anno dopo, il 29 giugno 1993, a Milano venne costituita l’Associazione del buon governo da Marcello Dell’Utri, Cesare Previti, Antonio Martino, Mario Valducci. L’evento clou di quella traiettoria fu però l’endorsement per Gianfranco Fini, il 23 novembre 1993 a Casalecchio di Reno, nel Bolognese. Berlusconi era lì per inaugurare un supermercato e gli chiesero della sfida alle comunali di Roma tra Francesco Rutelli e Gianfranco Fini. “Se fossi a Roma voterei per Fini”.

Delfino prediletto di Giorgio Almirante, il leader repubblichino dell’estrema destra missina, Fini era l’interprete designato per il fascismo del 2000 (congresso del Msi a Sorrento nel 1987). Tra la casa di Montecarlo al cognato Tulliani e la deriva centrista con Monti (in compagnia peraltro di Rutelli, suo ex sfidante), la parabola finiana è terminata ben prima delle nozze d’argento berlusconiane con i Palazzi del potere nella Capitale. Di qui il funesto bilancio storico-politico del berlusconismo nel cosiddetto ventennio breve della Seconda Repubblica, dalle elezioni politiche del 1994 a quelle del 2013, che di fatto segnarono la fine del bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra. Un bilancio in tre punti fondamentali.

1) Il 26 gennaio del 1994, Berlusconi si presentò come l’uomo nuovo della politica italiana. Un finto uomo nuovo. Trascinato nell’agone partitico dal suo gigantesco conflitto d’interessi, l’allora Cavaliere era parte integrante del Sistema. Costruttore indi tycoon televisivo, era un imprenditore dalle oscure origini economiche, complici i rapporti del suo “impero” con la mafia palermitana di Stefano Bontate, poi sconfitta da quella dei viddani corleonesi di Riina e Provenzano. Berlusconi era legato a Bettino Craxi, pilastro socialista della fase finale della Prima Repubblica incarnata dall’Ancien Régime del Caf, il patto tra lo stesso Craxi e i leader dc Andreotti e Forlani per mantenere in vita il pentapartito Dc-Psi-Pri-Pli-Psdi. Il pentapartito morì per Tangentopoli e Berlusconi fu utile all’establishment per sventare la vittoria annunciata dei postcomunisti di Achille Occhetto. Il Cavaliere in politica è sempre stato pragmatico. Nel 1976, per esempio, aveva finanziato la scissione del Msi, quella di Democrazia Nazionale, per fare un favore a Giulio Andreotti. Berlusconi, nel 1994, promise una vacua rivoluzione liberale (“Meno tasse per tutti” lo slogan) ma in realtà mise in un calderone i suoi interessi personali, l’estrema destra di Fini, il secessionismo padano di Umberto Bossi, l’antico statalismo assistenzialista degli ex dc Rocco Buttiglione e Pier Ferdinando Casini. Insomma, una continuità vera e propria con il regime precedente.

2) Berlusconi è sempre stato un pessimo uomo di governo, dedito esclusivamente alla tutela dei suoi molteplici interessi economici, alla cura dei suoi guai giudiziari con leggi ad personam per scansare inchieste e processi e a un’intensa vita sessuale (diventata poi anche strumento di selezione politica). Epperò è stato un formidabile animale da campagna elettorale. Da leader del centrodestra rappresenta un unicum nell’Occidente: sette campagne elettorali (1994, 1996, 2001, 2006, 2008, 2013, 2018) e vincendone tre a fasi alterne (1994, 2001, 2008). Il suo carisma ha generato il primo populismo europeo dei tempi moderni, basato su un’adorazione fideistica e il massacro dei corpi intermedi con il mezzo del partito leggero o di plastica, Forza Italia. Il suo avvento fece parlare di “videocrazia” e di “peronismo mediatico”. Come ha scritto lo storico Antonio Gibelli, autore del migliore saggio uscito in questi mesi per i 25 anni del berlusconismo (26 gennaio 1994, Laterza, 2018): “A distanza di quasi un quarto di secolo, l’epoca aperta nel 1994 non si è ancora conclusa. Anzi quella pagina ha inaugurato una linea di tendenza divenuta mondiale, culminando nel successo di Trump negli Stati Uniti. La simbiosi tra antipolitica e media di massa è passata dalla videocrazia a quella del populismo digitale. Di qui passano oggi l’erosione, lo sfiancamento, della democrazia allora inaugurati. Per quanto superato, al punto da aver perso la sua primitiva consistenza fisica attraverso un processo di mummificazione preventiva, il Cavaliere di Arcore appare più come un capostipite che come una meteora. Più come un precursore che come un episodio eccezionale”. Il populismo di B. è stato soprattutto un metodo, come sovente avviene con questa categoria politologica. L’antinomia amico-nemico, il linguaggio destrutturato e banale, la presunta lotta all’odiato teatrino della politica, la dipendenza dalle folle che vogliono dal capo la rapida realizzazione delle loro aspettative.

3) Berlusconi, dunque, non è mai stato un liberale come ha voluto far credere. Non solo per la fallacia delle sue promesse (abbassamento delle tasse e modernizzazione del Paese) ma anche per l’intolleranza al dissenso e alla concorrenza (si pensi al duopolio Raiset, tappo dell’intero sistema tv). Il suo populismo elettorale è diventato sempre gestione del potere in senso andreottiano. Come ha ricordato Aldo Giannuli, Berlusconi è molto più figlio di Andreotti che di Craxi. Del resto dalle tenebre andreottiane della Prima Repubblica ha ereditato il metodo piduista, consacrato dall’adesione dello stesso B. alla loggia deviata della massoneria di Licio Gelli. Simbolo di questo gestionismo è stato l’untuoso Gianni Letta, mandarino ministeriale e fedelissimo d’antan del Divo Giulio, il vero premier ombra quando B. è stato a Palazzo Chigi. Sotto questo ombrello, meglio questa cappa, il berlusconismo politico ha sviluppato ed evoluto la sua vocazione a delinquere, sancita dalla sentenza con cui B. è stato condannato in Cassazione per frode fiscale, nell’agosto del 2013. Ne sono conferma anche le condanne definitive per Previti (corruzione di magistrati) e Dell’Utri (rapporti con la mafia) nonché, tra le tante, le inchieste su P3 e P4. Senza dimenticare lo sfaldamento di Forza Italia (le scissioni di Fini, Alfano, Verdini e Fitto) quando è stata chiara la fine della Seconda Repubblica, con il governo tecnico di Mario Monti e la successiva esplosione del fenomeno Cinquestelle. Per concludere: l’anomalia  Berlusconi era nota a tutti sin dall’inizio e molti non hanno fatto nulla per contrastarla, rendendo B. incandidabile per il suo conflitto d’interessi. Anzi, una parte del Sistema nel 1994 si illuse di usarlo contro la sinistra, così come avevano già fatto le decrepite élite liberali con Mussolini nel 1922. E’ finita con un altro Ventennio ed è forte la tentazione di usare l’intuizione di Brecht per definire il berlusconismo come fascismo democratico.

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