“Ogni domenica, alle nove e mezza, venivano a prenderci dal campo con un camion. Sceglievano i più debilitati. In italiano, ci dicevano: ‘Vieni, vieni al Pronto soccorso, ché lì ti danno da mangiare i maccheroni. Non vedi come sei diventato magro?’. Non è più tornato indietro nessuno. Li portavano ai forni crematori”. Emo Bianchi ha 96 anni, ne aveva soltanto 20 quando fu firmato l’armistizio di Cassibile. Era il 3 settembre del 1943, e i soldati che non riconobbero la Repubblica di Salò furono accusati di tradimento dai tedeschi e deportati nei campi di concentramento. All’epoca Bianchi era di stanza a Milano, in attesa di essere mandato in Grecia a combattere. Fu caricato su un carro bestiame e portato a Weissensee, in Germania. Quest’anno a Bologna ha ricevuto la medaglia d’onore concessa dal Presidente della Repubblica ai cittadini deportati e internati nei lager e destinati al lavoro coatto per l’economia di guerra. “Un giorno, mentre andavamo a prendere gli avanzi da un’osteria prima di tornare al campo, un mio compagno ebbe la sfortunata idea di fare una carezza a un bimbo tedesco – racconta Bianchi che è riuscito a parlare di quelle tragiche vicende solo dopo settant’anni di silenzio -. Lo uccisero di botte”.

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