Sembra quasi che in Fca non stessero aspettando altro che l’occasione giusta per fare marcia indietro sugli impegni presi a fine novembre scorso: l’azienda aveva annunciato più di 5 miliardi di investimenti nei suoi stabilimenti italiani per il periodo 2019-2021, nonché il ritorno alla piena occupazione delle fabbriche. Ma è già arrivata la secca smentita: “In questo momento il piano è in fase di revisione”, ha dichiarato l’ad del gruppo italoamericano, Mike Manley. Motivo? L’arrivo della cosiddetta “ecotassa” per le auto con emissioni di CO2 superiori ai 160 g/km, che avrebbe prodotto un “contesto cambiato”, tanto da dover rivedere i conti: “Fino a che la revisione non sarà ultimata, non posso commentare ulteriormente”, ha detto l’ad Fiat-Chrysler. In compenso, però, aumenterà la produzione di Jeep negli Usa, per magno gaudio di Donald Trump.

Diverse le reazioni dei principali sindacati. “Queste dichiarazioni (quelle di Manley, ndr.) mettono a rischio l’occupazione per i lavoratori degli stabilimenti italiani, che da anni sono in cassa integrazione perché i piani industriali dichiarati non sono stati realizzati”, spiega Michele De Palma, segretario nazionale Fiom-Cgil e responsabile automotive: “La Fiom aveva ritenuto il piano presentato dal nuovo amministratore delegato, importante ma in ritardo nella svolta ibrida ed elettrica e, vista la mancanza di nuovi modelli Maserati e di auto di massa, non sufficiente per risolvere il problema della piena occupazione in poco tempo”. Per questo Fiom invita all’apertura di un confronto fra tutti i sindacati, azienda e politica al fine di studiare “tutte utili a impedire il rischio di chiusura di interi stabilimenti. In assenza di garanzie per i lavoratori, deciderà nelle assemblee le iniziative da dover tenere per scongiurare i rischi sul futuro degli stabilimenti italiani”.

Se per la Fiom-Cgil la colpa è tutta dell’azienda, per la Uilm la responsabilità sono dell’Esecutivo. “Comprendiamo le motivazioni di Fca, ma noi non siamo disposti a mettere in discussione il piano industriale che ci è stato presentato a Mirafiori e che prevede 5 miliardi di investimenti dal 2019 al 2021. Quel che è certo è che faremo tutto il possibile per evitare che ciò accada”: queste le parole del segretario generale della Uilm, Rocco Palombella: “Non possono essere i lavoratori a pagare le scelte del nostro governo, al quale abbiamo già più volte sollevato la questione chiedendo di rivedere il provvedimento. Il governo deve sapere che le sue azioni hanno una ricaduta concreta su 260 mila lavoratori impiegati non solo in Fca, ma in moltissime altre imprese dell’automotive. Il settore negli anni ha contribuito in maniera significativa al Pil del Paese e il recente crollo registrato dall’Istat dimostra come la politica non possa non tenerne conto. Siamo pronti a fare la nostra parte per tutelare tutti i lavoratori”.

L’ecotassa, vale la pena ricordarlo, prevede quattro scaglioni (161-175 g/km: 1.100 euro; 176-200 g/km: 1.600 euro; 201-250 g/km: 2.000 euro; superiore a 250 g/km: 2.500 euro). Ma quanto impatta realmente sul giro d’affari di FCA? Decisamente poco. Infatti, secondo i dati del mercato italiano dell’auto nel 2018, a essere colpito dalla misura sarebbe meno del 5% di tutte le vetture immatricolate (il computo include anche tutte quelle degli gli altri marchi/gruppi): in genere, una sparutissima minoranza composta da automobili con motori particolarmente vecchi o di potenza/cilindrata elevata. Lo scorso anno FCA ha venduto 502 mila auto nel nostro Paese: significa che quelle afflitte dalla tassa sarebbero, nella peggiore delle ipotesi, circa 25 mila unità. Un dato numericamente poco significativo per influenzare la politica industriale di una multinazionale che vende quasi 5 milioni di veicoli ogni anno in tutto il mondo.

Addirittura, poi, il dato sulle auto di FCA realmente interessate dal provvedimento è ancora meno significativo: questo perché le percentuali brute non tengono conto del reale posizionamento dei marchi di proprietà del colosso italoamericano. Infatti, l’elevato lignaggio di brand come Ferrari e Maserati – che in Italia vendono complessivamente meno di 3.200 unità, lo 0,63% dell’immatricolato italiano di FCA – rende quasi del tutto ininfluente l’entrata in vigore della tassa ambientale, specie se si considera che queste automobili fanno già i conti con bollo e superbollo, che devono essere saldati annualmente (al contrario dell’ecotassa che si paga solo una volta, al momento dell’immatricolazione).

Viceversa, Fiat – compresa la divisione sportiva di Abarth – offre una gamma di prodotti che sono quasi del tutto esenti dall’ecotassa: sono pochissime le versioni che ne sono soggette, prevalentemente con motori benzina poco gettonati dal mercato o di progettazione ormai vetusta. Fra queste ci sono le Fiat Tipo hatchback e station-wagon con motore 1.4 turbo da 120 Cv, in allestimento “Lounge”: modelli che, però, sono fabbricati in Turchia e, pertanto, non hanno nulla a che fare con le decisioni industriali prese per gli stabilimenti FCA del nostro Paese. Ci sarebbe pure la Fiat 500L con motore 1.4 da 95 Cv in versione Cross, fabbricata in Serbia. Penalizzate anche Fiat Doblò – progetto del 2009 e assemblato in Turchia – e Qubo nella solo motorizzazione 1.4 aspirata da 77 Cv, anche questo fabbricato in Turchia. Poche versioni, tutte fatte all’estero, che hanno un peso marginale sulle 323 mila Fiat immatricolate in Italia nel 2018. Del tutto esente la “morente” Lancia: poco meno di 50 mila unità, tutte al di sotto della soglia dei 160 g/km di CO2, prodotte nello stabilimento di Tychy (Polonia).

La penalizzazione, semmai, potrebbe interessare alcune versioni di modelli Alfa Romeo, marchio che nel 2017 ha venduto a livello mondiale 150 mila auto e aspira a crescere fino a 400 mila nel 2022, e che sul nostro mercato ne vale 43 mila, circa l’8,5% delle vendite di FCA in Italia. Considerando che le motorizzazioni a benzina sul nostro mercato contano per il 41,5% del totale, significa che a essere tassate sarebbero, nella più nefasta delle ipotesi, 18 mila auto del Biscione. Peraltro, il dato è molto pessimistico considerando che per veicoli nel segmento di Giulia e Stelvio la percentuale dei motori a benzina diventa assai inferiore rispetto a quella media nazionale: difatti, più le auto diventano grandi e lussuose, più aumenta la percentuale di quelle che sono opzionate con motore diesel (e i motori a gasolio Alfa sono tutti al di sotto della soglia di 160 g/km). Senza dimenticare che l’impatto di un balzello da 1.600 euro su auto dal listino intorno ai 50 mila, oltretutto finanziabili, può essere poco influente.

Infine Jeep, marchio che in Italia conta 84 mila immatricolazioni, prevalentemente di Renegade (42 mila pezzi) e Compass (39 mila): quest’ultima non è fabbricata in Italia, anche se col nuovo piano potrebbe arrivare nello stabilimento di Melfi, dove vengono invece sfornate Fiat 500X e la stessa Renegade, tutti modelli figli della stessa piattaforma e con meccanica condivisa. Le altre, come Wrangler, Cherokee e Grand Cherokee, sono penalizzate in tutte le loro versioni: ma, oltre a non avere praticamente mercato da noi, sono prodotte all’estero.

La Renegade è soggetta alla tassa per le motorizzazioni 2 litri diesel da 140 e 170 Cv a trazione integrale: costano rispettivamente 33.400 e 36.700 euro, cui si aggiungeranno 1.100 euro della ecotassa, pari rispettivamente a un incremento del 3,3% e del 3%. Queste edizioni della Jeep più compatta costituiscono una porzione minoritaria nella mix del venduto. Discorso del tutto analogo per la Compass, ma con variazioni percentuali del prezzo ancora inferiori: sono colpiti i modelli con le sopracitate motorizzazioni a gasolio, che hanno un listino compreso fra 35.400 e 41.150 euro. In quest’ultimo caso l’incremento ammonterebbe a 1.600 euro.

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