Nella foto sono con Sabino Huni Kuin, Pajé e Cacique della Aldeia Novo Segredo, Alto Rio Jordao, Acre (Amazzonia). Luogo dove ci troviamo al momento di questo selfie

Ho riflettuto a lungo prima di scrivere queste prossime righe. Io in Brasile ci vivo e la situazione non si prospetta facile. D’altra parte ritengo necessario fare alcune puntualizzazioni, come se parlassi al presidente Bolsonaro stesso.

Gandhi, che non era comunista, sosteneva che il livello evolutivo di un Paese può essere compreso da come tratta le sue minoranze. E per quanto riguarda gli indigeni abbiamo senza dubbio a che fare con una minoranza, che va dallo 0,5 all’1% della popolazione. Anche se si tratta di quelli che si trovavano qui già da prima e anche se il calcolo si riferisce a quelli che hanno mantenuto i costumi tribali e parte dei loro territori, poiché gli indios presenti nel Paese, che hanno perso totalmente o quasi totalmente il contatto con le origini sono molti di più.

Ma veniamo al nocciolo del problema, almeno per come la vedo io. Questa minoranza occupa territori in proporzione vastissimi. Quindi appare del tutto logico che la maggioranza che ha un continuo bisogno, sempre crescente, di legname, minerali, energia, spazi per coltivazioni e allevamento bestiame, trovi nella decisione di Bolsonaro di cancellare ogni demarcazione la scelta giusta per un Paese in crescita. Tralasciando le questioni di carattere ecologico, che con una foresta come quella amazzonica, finiranno con il coinvolgere tutto il pianeta, quello che intendo sottolineare è l’aspetto culturale. Gli indigeni brasiliani sono gli ultimi custodi di culture millenarie che di sicuro da un punto di vista del mercato, del consumo e dello sviluppo materiale, non vengono nemmeno prese in considerazione. Non solo. Il Brasile, così come altri Paesi sudamericani, di sicuro non accetta lezioni dagli europei che quelle culture tribali le hanno piallate ormai secoli orsono, così come le foreste. Gli europei alcune di quelle genti addirittura le bruciavano vive. Figuriamoci.

Purtroppo è difficilissimo far capire a chiunque non le abbia avvicinate e conosciute direttamente quale sia il valore di tali culture, che hanno una conoscenza dell’ambiente, delle piante, del territorio, della flora e della fauna, del clima, ma soprattutto della costituzione stessa del tessuto spaziotemporale che parte da presupposti completamente diversi da quelli occidentali. Si tratta di una conoscenza millenaria, olistica, molto profonda, che oltretutto si è guadagnata negli ultimi decenni, vivaddio, l’attenzione di scienziati e università di tutto il mondo. La stessa scienza razionale, in parte, ha riconosciuto il valore di approcci al sapere diversi da quelli che essa stessa riconosce come tecnicamente validi. Recentemente sono state redatte “Enciclopedie della Foresta” e altri libri che sistematizzano la conoscenza di questi popoli. All’università di Rio de Janeiro stanno studiando (come avevo segnalato con un mio post di tempo fa su questo blog) gli effetti terapeutici della miscela psicoattiva dell’ayahuasca. Un composto di piante che sta avendo larga diffusione in occidente e il cui utilizzo e conoscenza da parte degli indios si perde letteralmente nella notte dei tempi.

Queste popolazioni sono le radici dell’umanità, il contatto con la terra, che probabilmente è proprio quello che manca ai popoli occidentali, che si stanno perdendo nelle malattie, nella depressione, nella mancanza di senso e in una guerra di ego e di potere dalle quali faticano seriamente a trovare una via di uscita. Le enormi conoscenze e la sapienza di queste culture sono molto profonde e potrebbero contenere persino segreti utili alla sopravvivenza stessa del pianeta. Un gigante come il Brasile, che ospita 305 etnie e 274 lingue, potrebbe avere la responsabilità di conservare un patrimonio culturale e spirituale di tutta l’umanità. Una anziana indigena di 81 anni, in California, si è messa a creare un dizionario sulla sua lingua per salvaguardarla dalla perdita totale. Se un’anziana signora ha la coscienza di percepire il valore di una simile necessità, a maggior ragione dovrebbero averla dei capi di un grande Paese.

Il Brasile potrebbe dimostrarsi più lungimirante degli spagnoli di 500 anni fa che distrussero totalmente la sapienza Maya, interessati solo all’oro e ad altre ricchezze materiali. Fu un genocidio umano e culturale. E nella nostra cultura spesso si considera del tutto normale questa procedura e del tutto ovvio che gli interessi materiali siano in cima agli altri, in nome dello sviluppo e della crescita. Spesso Bolsonaro ha dichiarato che vorrebbe fare in modo che gli indigeni, che secondo lui vorrebbero essere come noi, si inserissero nella società dei consumi e cambiassero costumi e sistemi di vita. Mi permetto di dissentire, visto che al di là delle difficoltà logistiche che spesso incontrano, sono molto orgogliosi e felici dei loro sistemi naturali, che quasi sempre sono enormemente più profondi e pieni dello sfacelo del sistema occidentale.

Nel discorso di insediamento del Presidente Bolsonaro, la Primeira Dama, sua moglie, ha fatto un intervento molto toccante sulle persone portatrici di disagi fisici e psichici, nel quale era lei stessa a esprimersi nel linguaggio dei sordomuti, mentre l’interprete traduceva al microfono in portoghese. Magistrale. In questa maniera spettacolare l’avvenente Michelle Bolsonaro ha spiegato che il nuovo governo avrà una grandissima attenzione nei confronti dei portatori di disagio e che farà di tutto per migliorare la loro condizione all’interno della società. Magnifico.
Ci piacerebbe che questo toccante intervento non fosse solo una sapiente trovata mediatica, ma la dimostrazione che, nonostante i toni spesso non concilianti del capo di governo, ci si potrebbe aspettare che il Brasile non perda l’occasione di dimostrarsi un Paese realmente evoluto, attento alle istanze umanitarie e culturali. Realmente attento al futuro.

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