di Stella Saccà

La mia amica Siria mi ha chiamato l’altro giorno. Da lei, a Roma, erano le 18.20. Da me, a New York, le 12.20. Sono rimasta stupita quando ho visto la sua foto a tutto schermo sul telefono che squillava, perché entrambe odiamo parlare al telefono. Mi chiede come va, se a New York è più facile, ma non so risponderle, è troppo presto. Ci vuole tempo e non mi lamento, le dico. Lei invece si lamenta. Mi dice che ha inviato le sue cose ad almeno 40 persone. Nessuno legge, nessuno è interessato a darti un’opinione, a dirti se hai talento o meno. Sembra quasi che i “più grandi” non vogliano che tu lo abbia, come se non ci fossero abbastanza fogli o tastiere su cui scrivere. Come se scrivendo bene tu togli spazio a loro.

Non è come in passato quando gli autori si incontravano in caffè dove qualcuno diventava il mentore dell’altro, in cui i maestri condividevano con gli apprendisti fino a trasformarli in colleghi. Eppure con i social network è molto più facile. Ma niente. Nessuno ti legge e i pochi che rispondono dicono sempre la stessa frase: “non ho tempo”. Siria, che per campare fa altri tre lavori, il tempo di leggere le cose che le mandano i suoi amici ce l’ha. Qualcosa non torna, no? Allora le chiedo se si è pentita, se era meglio fare l’attrice. Ma no, niente è facile, mi dice. Non è facile fare lo scrittore, l’avvocato, l’insegnante, l’operaio, l’infermiere, l’agricoltore, il poliziotto.

Mi perdo mentre fa il suo elenco e penso alle persone che conosco a Nyc: chi ha studiato design fa l’art director, chi medicina fa il medico, chi ha studiato teatro fa l’attore di teatro senza dover invitare parenti e amici per riempire la sala, chi ha studiato legge fa l’avvocato. Penso ai miei amici in Italia, veterinari che fanno i commessi, chi ha studiato marketing fa la cassiera al cinema, chi ha fatto comunicazione fa l’assistente in piscina ai bambini, chi ha fatto legge lavora nella moda, chi ha fatto moda lavora in un pub. Sono pochi i giovani che conosco in Italia che fanno un lavoro legato al loro percorso di studio. Sarà per questo che molti sono divorati da un’invidia sociale che trasforma normali cittadini in potenziali criminali armati di tastiera? Perché non siamo soddisfatti?

Leggono che una ragazza di 30 anni molla tutto per andare in America e cercare di realizzare il proprio sogno e sparano. Colpiscono, ogni lettera un proiettile. Primo colpo: “Chissà chi le ha dato i soldi”. Secondo colpo: “Facile coi soldi del padre”, senza pensare che magari quella un padre manco ce l’ha, che magari lavora a Chinatown tutte le sere come cameriera o ha vinto un bando o aveva messo da parte soldi per comprare casa con uno che poi l’ha lasciata o glieli ha dati la nonna morendo o glieli hanno dati i genitori vendendo casa a via Ugo Ojetti e affittando un monolocale a Ponte di Nona, tanto ora sono solo in due. E poi via con gli spari a sangue freddo, quelli di chi legge solo i titoli di un post e non l’intero articolo. Gente, soprattutto adulta, che forse pensa che questi proiettili vadano a finire sullo schermo e non penetrino.

Il fatto è che siamo un Paese in cui non stiamo tutti sulla stessa barca e c’è chi beve champagne e chi affonda e Roma non è Nyc che si può fare il lavoro che si vuole e ricevere aumenti inaspettati perché si è bravi. Quindi ci arrabbiamo con gli altri, con Roberto Saviano, con Asia Argento, con chi scrive, con Chiara Ferragni che sì, povera non lo è stata nemmeno prima di diventare (più) ricca e per lei è stato più facile, ma l’invidia sociale non le toglie milioni di followers per darli a te.

Torno ad ascoltare Siria, che ancora si lamenta. Ma lei non è un’invidiosa sociale, per questo mi auguro che ce la faccia. Ecco, ho appena trovato cosa chiedere al nuovo anno: che ognuno faccia ciò che lo rende felice, che i “vecchi” aiutino i “giovani”, che gli infelici siano meno arrabbiati, che i felici più grati, che lo schermo intrappoli le pallottole e che Siria non mi chieda cosa faccio a Capodanno.

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