Nel ciclo biologico di qualsiasi “Sistema Paese” l’importanza delle telecomunicazioni è seconda solo a quella dell’energia. È un contesto delicato in cui si intrecciano le esigenze di funzionalità, efficienza, efficacia, continuità operativa, indipendenza, sicurezza e dove gli aspetti occupazionali hanno un peso non trascurabile e una discreta quantità di problematiche storicamente irrisolte. La sicurezza – considerata nella sua più ampia accezione – dovrebbe essere l’innesco dell’attribuzione di una significativa priorità nella trattazione del tema rispetto ai tanti e forse troppi assilli che caratterizzano l’orizzonte. La necessaria concorrenza sul mercato ha progressivamente rimodulato il dominio di questo settore strategico e l’abdicazione dello Stato non si è tradotta nel solo cedere il passo ai privati ma ha portato sul palcoscenico attori di cui forse si è in passato sottovalutato il ruolo.

La pluralità degli operatori ha determinato forti scosse telluriche che commercialmente si sono tradotte in un terremoto delle tariffe che continua a vivere un pericoloso sciame sismico. La competizione tra i “player” ha, sì, comportato massicce riduzioni dei prezzi praticati al pubblico, ma non ha ingenerato alcun miglioramento effettivo dei servizi praticati: il “valore aggiunto” che molti si aspettavano non si è tradotto, ad esempio, in qualcosa che agevolasse le categorie di utenza “deboli” come il pianeta degli anziani e l’universo dei piccolissimi. La galassia tlc – pur monitorata dagli organismi pubblici preposti, non ultime l’Agcm e l’Agcom – risente forse della mancanza di un piano nazionale di armonizzazione che contempli ogni risvolto sociale ed economico.

La notizia di un possibile collasso dell’azienda che è stata dapprima monopolista e poi leader in questo ambito getta nello sconforto e – a sentir parlare di 22mila posti a rischio – induce a chiedersi come questo sia possibile. Qualcuno, forse eccessivamente patriottico, si lascia persino scappare “e lo Stato dov’era?”. Proprio quest’ultima domanda merita una risposta e lascia intendere che i ritardi nel misurarsi con questo mostro tentacolare hanno reso ancor più fragile la situazione – e oggi arriva la notizia della sfiducia dell’ad Genish da parte di Vivendi. Ci si trova dinanzi a una sorta di osteoporosi della struttura scheletrica dell’intera realtà di Telecom Italia o Tim che dir si voglia. Qualcuno dovrà spiegare perché le parole (e certo non solo quelle) di Franco Bernabèla cui lungimiranza gli è costata due volte l’uscita da Corso Italia – non hanno trovato ascolto né seguito. Qualcun altro dovrà domandarsi il perché di non aver coinvolto personaggi di quel calibro per evitare oggi di strillare un inutile “mayday”.

Realtà complesse come quelle di Tim sono un patrimonio nazionale, fatto non solo di tecnologie e di soldi che girano, ma composto da mille tessere di un mosaico in cui nel tempo sono state modellate competenze e capacità creative che non possono andar disperse. Se il cinismo lascia calpestare la dignità di chi lavora in quel contesto, il bieco interesse non può trascurare la produttività che può ripartire avendo obiettivi chiari e perspicaci. Il senso di responsabilità deve riaffiorare. Forse anche un briciolo di spirito di patria, atteso che i vettori delle nostre voci e delle nostre informazioni sono ormai tutti stranieri. Il Paese può ripartire proprio da qui.

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