Pierre Vignon, giudice ecclesiastico delle province di Lione e Clermond-Ferrand, dopo venticinque anni di onorato servizio è stato graziosamente accompagnato alla porta. Dal 1° novembre è licenziato. La sua colpa è di avere lanciato nei mesi scorsi una petizione per chiedere le dimissioni del cardinale Barbarin, arcivescovo di Lione e “primate delle Gallie”. Aggravante è certo il fatto che la petizione abbia raccolto oltre centomila firme. Per arrivare al licenziamento di Vignon si sono riuniti i dodici vescovi della regione ecclesiastica Auvergne-Rhone-Alpes. Un atto solenne con tanto di verbale. Il presidente della conferenza episcopale francese, monsignor George Pontier, ha spiegato che “nella Chiesa un giudice esercita le sue funzioni in nome del vescovo e quindi c’è dell’incoerenza se uno giudica in nome del vescovo, di cui ha chiesto le dimissioni”. Si è rotto insomma un rapporto di fiducia. Dura lex sed lex, dicevano i latini. Don Pierre Vignon ha accettato signorilmente: “Mi rammarico della decisione, ma l’accetto. Non rimpiango nulla di ciò che ho detto, perché è in gioco la coscienza”.

Ora vale la pena di ricordare perché un giudice ecclesiastico improvvisamente se la prende con l’arcivescovo. La storia ha un nome: Bernard Preynat, prete predatore che tra gli anni Settanta e Novanta abusa di 67 ragazzi. La vicenda è scandalosamente insabbiata dall’allora arcivescovo di Lione cardinale Albert Decourtray. Il cardinale Philippe Barbarin arriva nella diocesi di Lione nel 2002. Preynat – sembra – non commette altri abusi, ma ad un certo punto parla del suo passato con l’arcivescovo. Sulle date Barbarin si ingarbuglia, dice di avere saputo soltanto nel 2014, poi ammette di essere stato informato già nel 2007. Altri ritengono che già prima alcune vittime hanno cercato di mettersi in contatto con lui. In ogni caso Preynat parla con il cardinale, gli dice che non ha mai più commesso crimini e che il passato gli fa schifo. “Gli ho creduto, mi sono fidato dei vescovi precedenti (che non lo avevano sospeso)”, dichiara il cardinale. Pagina chiusa. Preynat, anche se non più parroco, continua a fare carriera. Viene nominato a capo di un decanato e farà parte del “Centro formazione laici” della diocesi. Solo nel 2015, quando una vittima si rivolge al Vaticano, Barbarin solleva il prete abusatore da ogni incarico. La giustizia civile si sta occupando della vicenda con alti e bassi. Barbarin dovrebbe presentarsi di nuovo davanti al giudice nel gennaio 2019.

Ma non sono le aule del tribunale che qui interessano. Ciò che importa – visto che da anni Francesco ha lanciato la parola della “tolleranza zero” verso abusi e omertà – è di capire come si comporta la Chiesa di Francia. In terra francese la legge statale prescrive che il vescovo debba denunciare un prete abusatore. Prima domanda: i dodici vescovi della regione ecclesiastica Auvergne-Rhone-Alpes, così precisi nel caso Vignon, ritengono lecito e legittimo che l’arcivescovo di Lione non tenga in nessun conto la legge statale quando si tratta del crimine di abuso? Qualche monsignore potrebbe obiettare che la Chiesa ha le sue proprie leggi. E allora la domanda passa alla conferenza episcopale di Francia: stante le leggi ecclesiastiche chiarissime nei confronti di chi abusa di minori (se ne occupò già il sinodo di Elvira, in Spagna, nel 300 della nostra era), i vertici della gerarchia francese ritengono accettabile e buon esempio la privatizzazione che il cardinale Barbarin ha fatto dell’intera vicenda? Come dire, 67 stupri sono un affare da trattare tra cardinale e prete abusatore: e se il cardinale “crede” all’abusatore, gli fa una ramanzina e amen.

Quello che è diventato chiarissimo dopo la Lettera di papa Ratzinger ai cattolici irlandesi nel 2010 e dopo tanti interventi di papa Francesco e specialmente con la sua Lettera ai vescovi cileni e l’altra al “popolo di Dio” – entrambe di quest’anno 2018 – è che le vittime devono essere al centro delle preoccupazioni della gerarchia ecclesiastica. Le vittime, e non il buon nome dell’istituzione ecclesiastica. A Lione le vittime sono sessantasette. E la punizione del colpevole non è un mero esercizio di applicazione del codice, ma un modo effettivo di rendere giustizia a chi è stato colpito e ferito e di rendere trasparente il processo di riforma di una Chiesa, in cui la “sporcizia” degli abusi (per riprendere le parole del cardinale Ratzinger alla Via Crucis del 2005, poco prima delle sua elezione) si è talmente accumulata da mettere in questione la credibilità stessa del messaggio ecclesiale.

Proprio in questi giorni si è riunita la conferenza episcopale francese. L’assemblea plenaria ha ascoltato la testimonianza di otto sopravvissuti. Per inaugurare un nuovo corso di maggiore rigore e severità.

L’opinione pubblica tuttavia si interroga. L’episcopato francese, riunito in fraterna assemblea, non avrebbe potuto discutere seriamente di quanto il cardinale Barbarin abbia mancato ai suoi doveri fondamentali nel momento in cui non ha messo in moto un procedimento contro il prete predatore, sottraendolo in un colpo solo sia alla giustizia civile sia a quella ecclesiastica?
Non sono domande oziose. Quello che si è capito dopo sei anni di pontificato bergogliano è che non basta che a Roma un pontefice predichi riforme, se poi nel grande corpo della Chiesa – sparso nei cinque continenti – c’è chi guarda da un’altra parte o rallenta o intende cominciare domani, lasciando sotto il tappeto i crimini di ieri.

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