Con una difficoltosa mediazione, per usare un eufemismo, la riforma della prescrizione annunciata e voluta in pressoché totale solitudine dal ministro Alfonso Bonafede e dal M5s entra nel ddl anticorruzione che sarà in aula il 19 novembre e dunque dovrebbe essere approvata in tempi brevi ma entrerà in vigore solo da gennaio 2020, per i reati commessi a decorrere dalla stessa data, congiuntamente a una complessiva riforma del processo penale.

Che mettere finalmente mano alla prescrizione, in un Paese che ha usato e avrebbe volentieri continuato a usare in modo perverso uno strumento concepito per regolare il rapporto tra il trascorrere del tempo e la doverosa pretesa punitiva dello Stato e non per garantire l’impunità ai corrotti e le parcelle milionarie ai loro difensori, sarebbe stato oltremodo arduo lo sapevamo da sempre.

In questi giorni però abbiamo assistito a uno spettacolo a tratti ripugnante, a una gara senza memoria e senza decenza tra politica, informazione, lobby degli avvocati, che include difensori-legislatori per meriti acquisiti presso i loro potenti clienti politici che gli hanno garantito uno scranno parlamentare, a cui hanno preso parte anche noti e autorevoli esponenti del potere giudiziario allergici alla prescrizione all’italiana, sconosciuta nelle democrazie liberali dove “la giustizia funziona”, solo quando a beneficiarne grazie alle leggi vergogna, rimaste pacificamente in vigore, era l’otto volte prescritto Berlusconi S.

Sarebbe superfluo aggiungere che nell’impianto complessivo del processo penale e del contrasto alla corruzione dai tempi in cui conduceva il gioco “il grande impunito” non si sono mai registrati cambiamenti “epocali” e nemmeno sostanziali, come ha confermato anche la valutazione espressa dopo la “riforma Orlando” del giugno 2017 dal gruppo di Stati del Consiglio d’Europa che nel febbraio dello stesso anno sottolineava in negativo come quell’intervento legislativo non avesse messo la parola fine alla prescrizione dopo una condanna di primo grado, ma solo uno stop di 18 mesi nel computo del termine che in concreto rimandava solo la tagliola della prescrizione.

Per “l’odiosa” Europa, che almeno su quel punto era stata inesorabilmente chiara, non c’era motivo di estendere la prescrizione oltre il primo grado di giudizio perché “incentiva le tattiche dilatorie” e diventa “un ostacolo alla lotta alla corruzione” con la diretta conseguenza che “se la questione non sarà affrontata, la fiducia dei cittadini e degli investitori nello Stato di diritto potrebbe diminuire”. Ma evidentemente dei moniti europei non era rimasta alcuna traccia se la richiesta di bloccarla dopo il primo grado di giudizio (e non dopo una sentenza di condanna anche per scongiurare il rischio di incostituzionalità per disparità di trattamento) e introdurre la riforma nel ddl Anticorruzione ha alimentato per giorni un terremoto politico-mediatico sulla giustizia da era berlusconiana, con accerchiamento a 360 gradi degli “incompetenti barbari-giustizialisti” che vorrebbero istituire “un ergastolo processuale”.

Se è possibile le reazioni che hanno preceduto l’intesa in extremis sono state persino peggiori di quelle a cui avevamo assistito nel 2016 durante il governo Renzi quando Felice Casson osò, con quello che fu etichettato come un “blitz” dalla grancassa della stampa amica del rottamatore, presentare un emendamento per stoppare la prescrizione con la sentenza di primo grado: allora ci fu  il gelo e la velata irrisione della dirigenza Pd, ci furono le invettive furiose di alfaniani e verdiniani ma almeno l’Anm, presieduta da Piercamillo Davigo mostrò piena sintonia.

Ora il M5s non si è trovato solo a dover fronteggiare le “resistenze” di Matteo Salvini quantomeno “condizionato” dalla consuetudine con il “padre nobile” pluricondannato e pluriprescritto e a subire le molteplici sfumature “garantiste” delle opposizioni contro “la deriva giustizialista”: dalle consuete invettive di Forza Italia al monito dell’ex guardasigilli Orlando nei confronti dei “regimi autoritari che comprimono i diritti della difesa” fino ai richiami di Grasso per presunte violazioni della Costituzione.

Ma si sono aggiunti anche gli addetti ai lavori: il neo presidente degli avvocati penalisti Gian Domenico Cavazza, (intervistato dalla Stampa il 2 novembre) ha parlato di “una riforma raccapricciante” mentre “il problema sono i tempi abnormi” che, a ben vedere, sono dovuti in primo luogo al numero esorbitante di processi come ricorda da sempre inascoltato Piercamillo Davigo, a una legislazione che troppo spesso sembra fatta appositamente per dilatarli e alle risorse insufficienti. Dunque i penalisti già in rivolta contro “il maldestro tentativo” di modificare la prescrizione all’interno del ddl Anticorruzione e contro “il populismo giudiziario” del M5s ora che l’accordo sullo stop alla prescrizione dopo il primo grado c’è hanno annunciato 4 giorni di sciopero. Anche l’attuale presidente dell’Anm Minisci, sempre dalle pagine della Stampa,  aveva considerato “lo stop alla prescrizione pensato male dal governo”, con la conseguenza “di processi infiniti” aggiungendo che “non si può partire dalla coda e cioè dalla prescrizione se non si riforma il corpo intero del processo”.

Un rilievo analogo a quello sollevato poche ore prima dell’intesa dal capogruppo alla Camera della Lega Riccardo Molinari quando aveva rilanciato “una riforma complessiva del processo penale” che, se dovessimo fare riferimento alla storia più o meno recente della legislazione processuale nel nostro Paese, potrebbe vedere la luce tra circa 25 anni, o magari solo 20 se le cose vanno un po’ più celermente rispetto a quella precedente il cui disegno di legge originario risale al 1963 mentre l’effettiva entrata in vigore avvenne il 24 ottobre 1989.

Ma anche se in buona parte condivido le forti perplessità espresse da Piercamillo Davigo riguardo la dilatazione dei tempi causata dal collegamento tra l’entrata in vigore delle due riforme dettato, temo, non solo dalla motivazione di legiferare in modo organico e coerente, sono consapevole che si è trattato di afferrare l’unica possibilità per tentare di superare un sistema iniquo.

E mentre insieme alle critiche infuriano reazioni scomposte contro l’accordo sulla riforma vale la pena di ricordare che fino a quando la possibilità di disciplinare la prescrizione nel senso prospettato dall’Europa e in sintonia con tutte le democrazie occidentali era solo virtuale c’era una vasta condivisione sull’elementare pretesa che i processi dovessero concludersi con una sentenza di assoluzione o di condanna e sull’evidenza che la prescrizione finiva per essere un’ iniqua amnistia a favore di ricchi e potenti.

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