La cosca di ‘ndrangheta che in Emilia Romagna risponde ai Grande Aracri di Cutro esiste, ha commesso reati riassunti in almeno duecento voci di imputazione e per cinque dei suoi capi la Corte di Cassazione ha confermato in via definitiva le sentenze dell’appello. Si va dai 12 anni di Antonio Gualtieri, Francesco Lamanna e Romolo Villirillo ai 14 di Alfonso Diletto ai 15 di Nicolino Sarcone, considerato il capo tra i capi. Tutti avevano chiesto il rito abbreviato. Uno solo dei “magnifici sei” che guidavano la Famiglia attende ancora la sentenza: è Michele Bolognino, per il quale i pubblici ministeri della Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna hanno chiesto complessivamente 48 anni nel processo parallelo di Reggio Emilia.

Il pronunciamento della sezione della Suprema Corte presieduta da Maurizio Fumo conferma l’impianto accusatorio illustrato dal sostituto procuratore generale Paola Filippi e condanna definitivamente 40 dei 46 imputati per i quali i legali avevano presentato ricorso. Complessivamente il rito abbreviato di Bologna registrava 71 persone alla sbarra, con 11 assoluzioni arrivate nei primi due gradi di giudizio e un caso di reato prescritto. Per due dei condannati in appello dopo l’assoluzione di primo grado – Giuseppe Pagliani (quattro anni di carcere) e Michele Colacino (quattro anni e otto mesi) – la Cassazione ha deciso il rinvio ad un nuovo secondo grado. Il primo è l’ex capogruppo del Pdl in consiglio provinciale a Reggio Emilia, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, l’altro è uomo della cosca secondo la Dda e deve rispondere del reato più grave, il 416 bis per appartenenza ad organizzazione criminale di stampo mafioso.

Dopo la sentenza in Cassazione, ora gli occhi puntano verso l’aula bunker di Reggio Emilia dove da un giorno all’altro è atteso il rientro dalla camera di consiglio del collegio giudicante che deve pronunciarsi nel primo grado del rito ordinario. Altri 147 uomini e donne alla sbarra, artefici della consorteria mafiosa o semplici compagni di avventura più o meno collusi nella commissione di reati. L’ultima udienza, la numero 195, si è tenuta il 16 ottobre e da allora i tre giudici Caruso, Beretti e Rat sono rinchiusi negli appartamenti allestiti nella questura di Reggio Emilia per scrivere la sentenza. Comunque vada quel giudizio, il pronunciamento della Cassazione mette un primo, fondamentale punto fermo al più grande processo alla ‘ndrangheta impiantata nel Nord Italia e certifica la permeabilità del territorio alle sue mire espansive.

Definitive sono le condanne del dirigente comunale di Finale Emilia Giulio Gerrini sugli affari sporchi del post terremoto 2012; del giornalista Marco Gibertini a disposizione per attirare clientela da estorcere e per difendere sulla stampa e in tv l’operato della cosca; della consulente finanziaria bolognese Roberta Tattini, a “completa disposizione della cosca fornendo consulenza ed opera professionale ed indicando nuovi obiettivi”; del poliziotto Domenico Mesiano per minacce ai giornalisti e per intrusioni nella banca dati della polizia per fornire informazioni utili a figure di spicco della ‘ndrangheta.

Il rinvio ad una nuova sezione della Corte d’Appello di Bologna del più noto esponente politico coinvolto in Aemilia, il leader reggiano di Forza Italia Giuseppe Pagliani, significherà presumibilmente poter acquisire in abbreviato anche le deposizioni rese dal collaboratore Giuseppe Giglio in aula durante le udienze del rito ordinario. Esse portano nuovi elementi a sostegno della consapevolezza di Pagliani in merito all’esistenza della cosca, con i cui uomini aveva stretto un patto per il futuro: voti e finanziamenti in cambio di commesse e lavori in edilizia. L’esponente di Forza Italia può tirare un sospiro di sollievo: non andrà in carcere. Ma lo attende una nuova maratona processuale dall’esito incerto.

Il deposito delle motivazioni dei giudici della Cassazione chiarirà su quali elementi si è arrivati alla sostanziale conferma della sentenza. Di nuovo c’è anche l’accoglimento dei ricorsi presentati da Cgil, Cisl e Uil regionali e dalle Camere del Lavoro di Reggio e Modena. Queste ultime in particolare rivendicavano, oltre al danno diretto per le forme di caporalato evidenziate dal processo, anche il risarcimento come parti civili per il capo uno di imputazione: il 416 bis. La Cassazione dice che ne hanno diritto e rimanda alla Corte d’Appello la quantificazione del danno. Altre condanne in solido riguardano la liquidazione delle spese processuali sostenute come parti civili da Libera, amministrazioni locali e associazioni di categoria. I danneggiati dalle infiltrazioni della ‘ndrangheta sono tanti: si farebbe forse prima a dire chi non lo è.

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