di Rossana Cassarà *

Il cosiddetto “whistleblowing” (da to blow the whistle, letteralmente “soffiare il fischietto”), introdotto in Italia dalla legge n. 179 del 30 novembre 2017 allo scopo di tutelare il lavoratore che segnali attività illecite delle quali sia venuto a conoscenza nell’ambito del rapporto di lavoro, è già arrivato al vaglio della Corte di Cassazione Penale che si è pronunciata con sentenza n. 35792 del 26 luglio 2018.

Il caso è quello di un dipendente di un istituto scolastico che aveva forzato l’accesso al sistema informatico della scuola e creato un falso documento di lavoro intestato ad una persona che non aveva mai prestato servizio presso la pubblica amministrazione, cancellandolo subito dopo. A sua difesa, l’imputato dichiarava di avere agito allo scopo di testare la vulnerabilità del sistema informatico dell’Istituto e segnalare eventuali falle all’Amministrazione, in adempimento del proprio dovere di segnalazione delle condotte illecite riscontrate.

La Cassazione non accoglie questa tesi difensiva e chiarisce le finalità ed i limiti di applicazione delle norme sul whistleblowing. Da un lato, il nuovo istituto intende tutelare il rapporto di lavoro del dipendente, che deve sentirsi libero di segnalare le irregolarità riscontrate senza temere ritorsioni da parte del datore di lavoro, dall’altro vuole favorire l’emersione di fatti illeciti per un più incisivo contrasto al fenomeno della corruzione.

Ci segnala, tuttavia, la Cassazione che la nuova normativa si limita a scongiurare conseguenze sfavorevoli per il segnalante ma “non fonda alcun obbligo di attiva acquisizione di informazioni, autorizzando improprie attività investigative in violazione dei limiti posti dalla legge”.

In altre parole, l’obbligo del dipendente di segnalare fatti illeciti è circoscritto ad un’attività di mera osservazione, controllo e contenimento delle azioni illecite altrui mentre ad esso non corrisponde un pari obbligo di attiva acquisizione di informazioni ed investigazione. Nessun dovere di segnalazione può addirittura giustificare l’accesso abusivo ad un sistema informatico protetto.

Ma cosa prevede nello specifico la normativa sul whistleblowing? La Legge n. 179 del 30 novembre 2017 si applica sia alla pubblica amministrazione che alle aziende private. Nel settore pubblico, vengono intensificate misure già introdotte dalla normativa anticorruzione del 2012 e modificato l’art. 54-bis del D. Lgs. 165/2001 sul pubblico impiego. Il nuovo testo prevede che chi, nell’interesse dell’integrità della Pubblica amministrazione, segnali al responsabile della prevenzione della corruzione dell’ente, all’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) o all’autorità giudiziaria le condotte illecite, di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non possa essere – per motivi collegati alla segnalazione – sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura peggiorativa delle sue condizioni di lavoro.

L’onere di provare che eventuali misure discriminatorie o ritorsive non siano connesse alla denuncia effettuata viene posto – ed è questo un punto di forza della tutela – a carico dell’amministrazione pubblica. Gli atti discriminatori o ritorsivi sono nulli ed il segnalante licenziato ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro. Non è ovviamente tutelato il lavoratore che risulti responsabile dei reati di calunnia e diffamazione.

La tutela del whistleblower nel settore privato rappresenta invece un’assoluta novità. Il cosiddetto “Modello di organizzazione e gestione” – che le aziende devono adottare ai sensi del d.lgs. 231/2001 – deve oggi prevedere specifici canali per la segnalazione di condotte illecite, di cui almeno uno con modalità informatiche e tali da garantire la riservatezza dell’identità del segnalante. Le segnalazioni devono essere circostanziate, effettuate in buona fede e complete di elementi utili a consentire le necessarie verifiche, quali una chiara e completa descrizione dei fatti; delle circostanze di tempo e di luogo; delle generalità o altri elementi utili ad identificare gli autori degli illeciti.

Vale anche per il settore privato la nullità del licenziamento ritorsivo e di ogni altra misura discriminatoria del segnalante. E’ presto per fare un bilancio sull’efficacia della nuova disciplina del whistleblowing (che è stata per anni sollecitata all’Italia sul fronte internazionale dell’anticorruzione), ma si leggono segnali contrastanti.

Da un lato, le vicende del primo whistleblower italiano Andrea Franzoso – che nel 2013 denunciò le spese pazze dell’allora presidente di Ferrovie Nord Milano subendo emarginazioni e ritorsioni fino al licenziamento e che è stato in questi giorni candidato dalle stesse Ferrovie a sedere nel cdA di Trenord – fanno sperare in una mutata sensibilità sociale che oggi trova riscontro in una legge dello Stato. Dall’altro, la posizione assunta da certe aziende all’indomani dell’entrata in vigore della legge, da un lato di incoraggiamento alle segnalazioni da parte dei dipendenti e dall’altro di pungente avvertimento che affermazioni false, sospetti e lamentele di carattere personale verranno punite con azioni disciplinari…..ci lascia qualche dubbio che il lavoratore abbia definitivamente conquistato la libertà di “soffiare il fischietto”!

* Palermitana ma ormai milanese di adozione, esercito la professione di avvocato a Milano occupandomi con passione di diritto del lavoro. Ho fatto esperienza in materia di lavoro giornalistico collaborando con il sindacato lombardo, ho seguito procedure di mobilità partecipando alle trattative sindacali e svolgo attività stragiudiziale e giudiziale su questioni inerenti il rapporto di lavoro subordinato, parasubordinato, autonomo e di agenzia in un primario studio giuslavoristico.

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