Il particolare emerge a pagina 93 delle motivazioni: il clan dei Casalesi si rifiutò di vendere cinque kalashnikov al terrorista islamico “avendo compreso i gravi scopi illeciti per i quali potevano essere utilizzati”. È uno dei passaggi più significativi della sentenza di condanna in primo grado a 8 anni per terrorismo di Mohamed Kamel Eddine Khemiri, accusato dal pm di Napoli Maurizio De Marco di appartenenza all’Isis attraverso attività di propaganda sui social network. Le motivazioni della III sezione della Corte d’Assise di Napoli – presidente Roberto Vescia, giudice estensore Giuseppe Sassone – hanno dato rilevanza e timbro di attendibilità alle dichiarazioni rese durante il processo dal pentito Salvatore Orabona. L’uomo ha raccontato i contatti avuti con il 43enne tunisino residente a San Marcellino (Caserta), un incontro in un bar con lui ed altri due stranieri residenti in Italia da diverso tempo. Secondo Orabona, un affiliato del clan che viveva di estorsioni e riciclaggio, e di compravendita di armi e droga, Khemiri chiese i kalashnikov e le munizioni, gli altri due stranieri erano alla ricerca di una Mercedes. “Quando abbiamo finito di parlare delle auto — ha testimoniato il pentito — mi hanno chiesto anche delle armi di tipo Kalashnikov. E io lì mi sono rifiutato, diciamo, di questa proposta delle armi, e gli ho detto: io vi posso dare solo le auto; le armi non gliele ho volute dare a queste persone”. I giudici riassumono così: “Il teste, nonostante dichiarasse che dalla vendita delle armi fosse possibile ricavare anche 15.000 euro per dieci pezzi, si rifiutava di venderle pensando agli eventuali scopi illeciti per cui potessero essere utilizzate da soggetti di nazionalità algerina o tunisina”.

La condanna risale a fine giugno. Da allora Khemiri è in carcere in attesa che inizi il processo di appello: il provvedimento infatti fu accompagnato da una misura cautelare del Tribunale, dopo che il gip aveva negato due volte l’arresto. Le indagini dei carabinieri del Ros di Napoli, agli ordini del tenente colonnello Gianluca Piasentin, hanno collocato il tunisino a capo di una centrale della falsificazione dei documenti necessari per il permesso di soggiorno. Ma a preoccupare maggiormente gli inquirenti era la rete di contatti messa in piedi da Khemiri su Facebook e Twitter per alimentare una campagna di proselitismo per l’Isis. Post e tweet con immagini truculente – spiate e copiate dai Ros grazie a uno spy virus inoculato sul Blackberry Curve 3G del tunisino – accompagnate da inviti all’azione e al martirio. “O lettore dei miei scritti, non piangere per la mia morte – scriveva su Twitter il 17 marzo 2015 – oggi sono con te e domani sotto terra. Se vivo sarò con te, se muoio avrai il ricordo. O passante sulla mia tomba, non meravigliarti del mio stato. Ieri ero con te, domani sarai tu con me”.

Per i giudici queste parole sono la prova della maturazione del passaggio al jihad armato, che li convince a sostenere in un passaggio della sentenza che ormai Khemiri “fosse pronto all’azione”. Oppure: “Sono isissiano finché avrò vita e se morirò vi esorto a farne parte”, post apparso il 26 gennaio del 2015 sulla sua bacheca Facebook. Di scritti come questi il tunisino ne ha pubblicati diversi e in quantità. Il 12 gennaio 2015, pochi giorni dopo il massacro nella redazione di Charlie Hebdo, Khemiri ha postato una Sura del Corano che recita: “Non siate amici di coloro che deridono la vostra religione, della gente del libro ed i miscredenti. Temete Allah se avete fede”. E cinque giorni dopo ha rincarato la dose. “Si avvicina l’ora della sconfitta degli adoratori della Croce”. In aula Khemiri si è rifiutato di rispondere alle domande del pm ed ha fatto spontanee dichiarazioni con cui si diceva innocente e ripudiava qualsiasi forma di odio e violenza. La Corte non gli ha creduto.

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