Cinema

Girl, film meraviglia sulla transgender ballerina che volle diventare ragazza. Il regista: “Una giovane eroina solo da ammirare”

Dal 27 settembre nelle sale italiane distribuita da Teodora l’opera prima diretta dal belga Lukas Dhont. Avvolta dall’affetto dei suoi cari e dall’accettazione naturale dei compagni di scuola e di danza, la sedicenne Lara odia il suo corpo in attesa della trasformazione fisico/corporea attuata coi medici. Straordinaria l’interpretazione di Victor Polster. Tratto da una storia vera

di Davide Turrini

Ma che incredibile meraviglia è questo Girl, in uscita il 27 settembre nelle sale italiane? L’opera prima del belga Lukas Dhont è uno di quegli oggetti cinematografici delicatissimi, una teca di cristallo dentro la quale è racchiuso il racconto di una dolorosa, agognata e sognata trasformazione fisico/corporea di un transgender da ragazzo a ragazza. Sentiamo già scalpitare le ire frementi dei dissacratori: la solita storia da mondo LGBT. Ma anche se fosse, che male c’è? Solo a livello tematico il gap identitario di una vita adolescenziale fragile che non riesce a sentirsi viva e vera dentro ad un involucro corpo che non gli appartienevibra di un’umanità struggente e inaudita. Se poi il cinema sa costruirci attorno una magica visione dalla densità poetica in finta soggettiva, allora è difficile staccarsi anche solo per un minuto dal grande schermo. In Girl l’autenticità da tranche de vie di inquadrature prolungate nel tempo frammentato del racconto, macchina a mano a ridosso dei corpi e del corpo di Lara (straordinario Victor Polster – già danzatore nella realtà – nell’interpretare questa doppiezza identitaria sfuggente), donano un’osmotica e paradossale sovrapposizione tra l’occhio della cinecamera e il sentimento della protagonista. Lara che si impegna con determinazione a diventare una ballerina classica, tra un plié e un enveloppé, su quelle punte ritta a saltellare senza mostrare agli insegnanti e far percepire al pubblico il peso di quel corpo maschile in divenire  femminile, è una missione visivo/percettiva che non ha eguali nel cinema recente. Dhont, dicevamo, vive addosso alla sua protagonista, cerca ulteriore verità nel reale con un suono in presa diretta che quando parla Lara è quasi un impercettibile bisbiglio, ulteriormente non inquadrabile tra le categorie di genere. Non ci sono dialoghi forzati in Girl, anzi. La tensione non è mai verso la percezione della parola, ma sempre orientata verso la direttrice dell’occhio di chi guarda.

Poi ancora questa prossimità della cinecamera al corpo della protagonista, questa ricerca del riflesso dell’inquadratura, con Lara allo specchio nel tentativo di ritrarre l’irriducibilità della sottile membrana di un fisico adolescenziale odiato e in attesa della trasformazione da crisalide a farfalla. Girl ha poi una palette di colori caldi che addolcisce la visione anche nei momenti più critici e tragici. Fermo restando che se c’è una qualità gentile e antispettacolare nel film è proprio questa pressoché totale mancanza di odio, astio, incredulità, attorno a Lara. Il padre che la accompagna in tutto e per tutto senza mai osare mettere in discussione operazione medica e percorso nella danza classica; le compagne e i compagni di scuola che se non in un improvviso rigurgito di cameratismo sembrano vivere naturalmente al suo fianco; le persone che popolano metrò, marciapiedi, bar che la inglobano senza battere ciglio. Il conflitto per Lara è tutto interiore. E per questo estremamente travolgente e veritiero, istintivo e pulsionale. Attenzione però non date nulla per scontato. Girl si chiude con un colpo di scena che dopo tanto slittare morbido obbliga alla brutale frontalità di un gesto estremo. Ritratto anche qui con impeccabile maestria di messa in scena.

Quando ero bambino mio padre voleva fare di me un boy scout. Ogni due settimane mi lasciava insieme a mio fratello a giocare nel fango con gli altri bambini e a campeggiare. Ma tutti e due odiavamo andarci”, ha spiegato il regista. “Entrambi preferivamo recitare, cantare e ballare e a noi sembrava che fosse questo il modo per esprimere noi stessi nel modo più sincero. Potete immaginare come siamo rimasti disorientati quando poco dopo abbiamo scoperto che queste cose erano viste come “femminili”, per bambine. Io ero un maschio, come potevano piacermi? Così alla fine ho smesso di farle, perché non volevo che mi si ridesse dietro”. “Molti anni dopo, quando avevo iniziato a studiare cinema, lessi un articolo su una ragazza, nata in un corpo di ragazzo: era convinta di essere una ragazza malgrado la biologia non fosse d’accordo. – continua Dhont – La mia ammirazione per lei fu istantanea. Il desiderio di raccontare la storia di un personaggio simile, giovanissimo, capace di sfidare una società in cui genere e sesso sono ancora inevitabilmente connessi, era enorme. È così che è iniziato Girl, dal bisogno di dire qualcosa su come percepiamo il genere, sulla femminilità e la mascolinità. Ma soprattutto sulla lotta interiore di una giovane eroina che mette a rischio il proprio corpo per diventare la persona che vuole essere. Qualcuno che sceglie di essere se stesso all’età di 15 anni, quando a molte persone occorre una vita intera”.

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