di Arsi*

L’Italia è il paese dove la ricerca è considerata un privilegio e non un lavoro, dove la precarietà è sinonimo di “flessibilità”. Questa visione è stata esplicitata nuovamente in un articolo pubblicato pochi giorni fa sul Corriere della Sera in cui i direttori scientifici di due Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico italiani (Irccs) hanno espresso i loro “timori e perplessità” sulle nuove norme previste nel decreto Dignità in esame alla Camera. Secondo quanto sostengono, aumentare la stabilità contrattuale dei ricercatori che lavorano in Sanità avrebbe un effetto deleterio sulle performance della ricerca che, sempre a detta loro, è e dev’essere per sua natura flessibile poiché “il mondo della ricerca funziona così”.

L’Associazione dei ricercatori in sanità Italia (Arsi) comprende bene la peculiarità della natura della ricerca, e la necessità di confrontarsi principalmente con il modello statunitense o con quello dei migliori paesi europei. Sfortunatamente però, in Italia tanto il mercato del lavoro quanto la ricerca pubblica funzionano in modo diverso. La tanto decantata flessibilità viene perseguita attraverso un abuso di contratti atipici che spesso non prevedono diritti minimi quali contributi, malattia e maternità, e che diventano strumento di ricatto e di subordinazione. Tutto questo trasforma inesorabilmente il lavoro della maggior parte dei ricercatori in precarietà cronica e incertezza per il futuro.

Dal censimento interno promosso dal Coordinamento nazionale dei precari negli Irccs emerge che, tra i circa tremila ricercatori in servizio nel 2016, oltre il 50% opera nello stesso istituto da almeno cinque anni e il 20% da più di dieci anni. È evidente che questa cronicizzazione del contratto atipico non può essere considerata flessibilità: un ricercatore impiegato con contratto flessibile per più di cinque anni è strutturale agli scopi e alla linea di ricerca dell’Istituto.

Parte del problema deriva dal fatto che l’esistenza della ricerca precaria in questo Paese ha prima di tutto basi legislative. Sia in ambito universitario che nella Sanità pubblica infatti, non è previsto oggi alcun contratto specifico a tempo indeterminato per la figura del ricercatore, come se la ricerca fosse un mestiere da coltivare per qualche anno in attesa di fare altro.

Certamente è necessario un periodo di formazione post laurea, ma a questo deve poter seguire un piano di inserimento stabile, per garantire continuità e futuro alla ricerca italiana. Contrariamente si corre il rischio, già oggi più che concreto, di perdere ricercatori con curricula competitivi a livello internazionale, che preferiscono realtà straniere più attrattive in termini di compensi e stabilità. Professionisti per i quali gli Istituti hanno investito risorse ma che, una volta diventati ricercatori in grado di ottenere risultati, non vengono trattenuti all’interno del sistema sanitario spesso solo a causa delle mancanza di strumenti contrattuali adeguati.

Sostenere che il mondo della ricerca debba funzionare in questo modo è una visione da tempo messa in discussione anche a livello internazionale, come si evince da editoriali presenti sulle più prestigiose riviste scientifiche internazionali quali Science (The Postdoc: A Special Kind of Hell, 2013 ) o Nature, dove è stato pubblicato un dossier firmato da Kendall Powell  sulle distorsioni legate alla precarietà del ricercatore. Quanto questo modello di flessibilità possa non essere quello più utile a far progredire la ricerca e la scienza lo dimostrano anche le biografie dei recenti vincitori del premio Nobel per la medicina Yoshinori Ohsumi (2016) e Jeffrey C. Hall, Michael Rosbash e Michael W. Young (2017), tutti “stabilizzati” prima dei 35 anni.

Insomma, sia la logica che la storia dimostrano esattamente il contrario di quanto sostenuto dai direttori degli Irccs. L’eccellenza della ricerca italiana nel mondo è infatti mantenuta anche da ricercatori che di flessibile e precario hanno solo il contratto e i diritti, non certo l’attività che svolgono. Il vero motore della competitività, e quindi della buona ricerca, è la possibilità per un ricercatore, dopo aver dimostrato quanto vale, di poter pianificare e fare progredire i propri studi con certezza e continuità.

* Associazione ricercatori in sanità Italia. Il nostro sito è associazionearsi.wordpress.com, potete seguirci su Facebook e su Twitter

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