È giunto il momento di riappropriarsi di Antonio Gramsci. Di liberarlo dalla presa mortifera delle sinistre liberal-libertarie che bene incarnano tutto ciò contro cui Gramsci combatté. Le sinistre, ormai, sono mero fenomeno culturale di glorificazione del nesso di forza mondial-capitalistico: al quale forniscono – diremmo con Gramsci – la superstruttura. Globalizzazione senza riserve, europeismo acefalo, atlantismo servile, mercatismo privatizzatore: ecco il quadro valoriale e orientativo delle sinistre, passate dalla lotta contro il capitale a quella per il capitale; dalla lotta contro l’imperialismo a quella per l’imperialismo made in Usa; dalla lotta per i dominati a quella contro i dominati, ossia la massa nazionale-popolare degli sconfitti della mondializzazione.

Per un verso, oggi, il popolo sente ma non sempre comprende e sa. Per un altro, gli intellettuali sanno ma non sempre comprendono e sentono: occorre, di conseguenza, un raccordo tra le due parti, affinché si dia una connessione sentimentale tra il sentire, il sapere e il comprendere e si eviti l’isolamento elitario degli intellettuali come “una casta od un sacerdozio” (Quaderni del carcere, 452) e l’esclusione del popolo ridotto a massa passivamente ignorante. Di qui rampolla l’esigenza di una letteratura nazionale-popolare e, più in generale, di “intellettuali che si sentono legati organicamente ad una massa nazionale-popolare” (Quaderni del carcere, 1676) e che agiscano per innalzarla, riformandola intellettualmente e moralmente.

In antitesi con i partiti e con gli intellettuali di sostegno del Signore turbocapitalistico e del blocco storico egemonico, occorre dare vita a un partito e a un ceto intellettuale di rappresentanza del polo dominato: id est della massa nazionale-popolare degli sconfitti, privi, fino a oggi, sia di rappresentanza politica, sia di intellettuali di riferimento, sia, ancora, di una propria organica visione del mondo. Occorre, conseguentemente, prendere congedo dalla casta sacerdotale degli intellettuali organici al blocco storico capitalistico e distanti dalle esigenze del popolo e procedere in vista della “creazione di un nuovo ceto intellettuale” (Quaderni del carcere, 1551) che, mediante la connessione sentimentale con le masse e una chiara vocazione nazionale-popolare, organizzi la soggettività rivoluzionaria e la coscienza culturale e politica e raccordi tra loro il partito comunista e il popolo, il moderno Principe e i dominati.

In questa luce si spiega, ancora, l’insistenza dei Quaderni sulla creazione di una nuova cultura, che sappia egemonizzare le masse e trapassare nella nuova forma di una visione condivisa in grado di favorire il riscatto degli oppressi su base nazionale-popolare. Con le parole dei Quaderni, la creazione di una nuova cultura è, per sua essenza, la socializzazione delle nuove visioni del mondo atta a fare sì che esse si pongano come “base di azioni vitali” (Quaderni del carcere, 1377) per la massa unificata nella coscienza e, dunque, in grado di pensare unitariamente l’essente e di agire praticamente in esso:

“Creare una nuova cultura non significa solo fare individualmente delle scoperte ‘originali’, significa anche e specialmente diffondere criticamente delle verità già scoperte, ‘socializzarle’ per così dire e pertanto farle diventare base di azioni vitali, elemento di coordinamento e di ordine intellettuale e morale. Che una massa di uomini sia condotta a pensare coerentemente e in modo unitario il reale presente è fatto ‘filosofico’ ben più importante e ‘originale’ che non sia il ritrovamento da parte di un ‘genio’ filosofico di una nuova verità che rimane patrimonio di piccoli gruppi intellettuali” (Quaderni del carcere, 1377-1378).

La trasformazione della filosofia della praxis in ideologia mobilitativa è anche, in seconda battuta, l’ufficio pratico-teorico che Gramsci virtualmente assegna ai Quaderni. Ciò fa di Gramsci oggi un filosofo del populismo, non certo dell’élite liquido-finanziaria e della sinistra culturale che la rappresenta.

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