Nella politica italiana asservita al bullismo dimostrativo di Matteo Salvini dopo essere stata annichilita per un ventennio dalle gag imbonitorie spacciate per comunicazione da Silvio Berlusconi, in questo susseguirsi di pataccari aureolati da grandi leader, niente eguaglia per delusione e vacuità l’attuale dibattito sull’ipotetica rifondazione della sinistra. Un tema su cui trovi a discettare consiglieri altamente improbabili (e a tutto interessati fuorché al tema) quali Paolo Mieli o Francesco Rutelli. Fermo restando un tema impellente, se si conviene dell’urgenza di creare plausibili alternative al trucido egemonismo leghista.

E invece questo dibattito in corso nelle ridotte della sinistra organizzata che fu, laddove non viene sterilizzato dai renziani (rottamati dalla storia, eppure incistati maggioritariamente negli organigrammi del Pd e pervicacemente intenzionati a difendere un’idea di potere ormai illusoria), evidenzia la totale mancanza di capacità analitiche finalizzate all’innovazione politica. L’estenuante ritorno di un riflesso condizionato che scatta da mezzo secolo: copiare gli argomenti degli avversari.

Esattamente l’opposto di quanto raccontava lo storico inglese Eric Hobsbawm, riferendo la tattica suggerita dal ministro vittoriano Benjamin Disraeli ai colleghi conservatori: “sorprendere i progressisti mentre stanno facendo il bagno e filarsela con i loro vestiti”. La ricetta della destra diventata l’oggetto del desiderio a sinistra, a partire dai successi elettorali di Ronald Reagan e Margareth Thatcher, presentata come brand vincente con il logo “terza via”.

Una mancanza di originalità da tempo punita dall’elettorato e defezionata dai militanti e che risuona anche oggi in tutti i talk show, dove pensosi leader senza seguito e commentatori condiscendenti confluiscono sulla tesi che le sconfitte progressiste derivano dal non aver colto i segnali forti che le antenne reazionarie hanno convertito in successi elettorali. E riparte la solita tiritera: sicurezza e immigrati, immigrati e sicurezza. Per cui la rifondazione a sinistra dovrebbe ridursi all’ennesima omologazione furbesca come scopiazzatura delle agende altrui. Quindi le menate dell’ascolto, dello stare in mezzo alla gente e altri preliminari trasformati da partiti in cerca d’autore in pietre filosofali d’alta politica.

A nessuno viene in mente che il vero problema è quello della propria specificità, la capacità di leggere dietro il terrorismo dei reazionari (la microcriminalità seppure in diminuzione, visto che corruzione e grande criminalità non turbano i benpensanti; la presunta alluvione etnica) palesi manipolazioni della realtà a scopo propagandistico. Perché il vero tema dell’oggi (al di là dei mimetismi del comando reazionario) è il ritorno delle diseguaglianze in crescita esponenziale; senza la denuncia delle cui cause gli interventi per lenire povertà nuove e vecchie si riducono a beneficenza. Un diffondersi delle diseguaglianze che non cala dal cielo ma si realizza mediante strategie mirate, a partire dall’azzeramento del lavoro come soggetto politico. Opera iniziata già negli anni Cinquanta con le rivoluzioni organizzative delle attività logistiche portuali fino a giungere oggi con le bubbole dell’impresa 4.0 (al di là dei novismi di maniera, sostituire lavoro vivo con quello morto dell’automazione robotizzata).

Sul tema delle diseguaglianze il Labour del vecchietto terribile Jeremy Corbyn ha saputo ringiovanirsi, le indignazioni fattesi movimenti hanno rivitalizzato la politica nel mondo iberico, portando alla ribalta nuovi speaker altamente credibili quando propongono un messaggio che intende caratterizzare le nuove frontiere del progresso democratico in termini egualitari, coniugando la libertà con la giustizia. Ben diversi da personaggi incredibili o usurati dalla nascita proposti dalle nostre parti come nuovo che avanza; tipo il pigolante Paolo Gentiloni, già portavoce rutelliano nella Margherita, o il tecnocrate macroniano alla amatriciana Carlo Calenda, già portaborse di Luca Cordero di Montezemolo in Confindustria. O l’antico funzionario “piccì” Nicola Zingaretti.

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