Incassata la prima fiducia al Senato, con 171 voti, per il governo Conte resta ora da completare l’opera anche a Montecitorio, dove i numeri della maggioranza saranno ancora più ampi. Ma se, pallottoliere alla mano, non c’è alcun rischio per il neo esecutivo targato M5s-Lega, al contrario, a preoccupare la maggioranza ci sono già diversi dossier ben più delicati, dal nodo Jobs Act fino all’Ilva. Temi, cioè, che dividono ancora i due partiti. Non è un caso che nel contratto di governo le questioni siano state soltanto sfiorate. E che i diretti interessati non intendano sbilanciarsi troppo, prendendo tempo.
Basta osservare l’affaire Jobs Act. Lo stesso Luigi Di Maio ha già annunciato l’intenzione di voler intervenire su una delle più discusse e simboliche riforme renziane: “Va rivisto, c’è troppa precarietà”. Eppure, non sarà semplice. Perché nel contratto di governo c’è poco o nulla in merito: “Particolare attenzione sarà rivolta al contrasto della precarietà, causata anche dal Jobs act, per costruire rapporti di lavoro più stabili e consentire alle famiglie una programmazione più serena del loro futuro”, si legge. Il nodo però, resta quello della possibile reintroduzione dell’articolo 18. Un tema sbandierato in campagna elettorale dai pentastellati e presente nel programma del M5s. Ma non certo in quello leghista, con il partito di Matteo Salvini attento alle esigenze del suo elettorato legato al mondo dell’impresa, tutt’altro che convinto di voler abbandonare la maggiore libertà di licenziamento concessa dal governo di Matteo Renzi. Non è un caso, quindi, che le posizioni siano ancora siano distanti, al di là la prudenza dei ministri del governo.
Al contrario, tra le seconde linee lo scontro sembra già aperto: “L’articolo 18? Va ripristinato per le aziende con più di 15 dipendenti, troveremo una soluzione con la Lega”, ha rivendicato il deputato del M5s Matteo Mantero. Della stessa opinione il senatore Nicola Morra: “La nostra posizione è stata chiara fin dalla campagna elettorale”. Più cauto è invece Riccardo Fraccaro, ministro dei Rapporti con il Parlamento e fedelissimo del neo ministro al Lavoro Luigi Di Maio: “Vogliamo portare in Aula i dossier, quando avremo i testi pronti ne discuteremo”. Dalla Lega, però, sembrano già prepararsi alle barricate: “Non è nel contratto”, ha tagliato corto Armando Siri, già promotore della flat tax in versione salviniana. E pure Claudio Borghi sembra già escludere la possibile reintroduzione: “Faremo quello che c’è nel contratto”. A prendere tempo, invece, è il collega Gian Marco Centinaio, neo ministro per le Politiche agricole: “Ne parleremo con Di Maio”.
Certo, non è l’unico dossier. Perché più spinoso e imminente da affrontare resta quello legato al destino dell’Ilva. Tanto che pure dal Pd sono arrivate accuse al governo di restare silente, da Renzi, fino all’ex viceministro allo Sviluppo economico Teresa Bellanova: “Pensate di fare una nuova Bagnoli? Se chiude l’Ilva di Taranto non si cancella solo l’industria, ma si blocca anche Novi Ligure e vanno in difficoltà gli investimenti del Nord”. “Pretendiamo che fin da subito siano rispettate le prescrizioni ambientali”, ha spiegato via Facebook il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa. L’incognita sul futuro dell’acciaieria, però, resta.
Lo stesso Di Maio, prendendo tempo, aveva già preferito non replicare a chi gli chiedeva chiarimenti, nel primo giorno di lavoro al suo ministero, dopo aver incontrato riders e imprenditori. Così come si è tenuto alla larga dal nodo Ilva lo stesso presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che, a domanda diretta, non ha risposto, nel giorno del voto di fiducia a Palazzo Madama. Né ha citato la questione nel suo discorso. Contratto alla mano, si parla soltanto di “concretizzare i criteri di salvaguardia ambientale secondo i migliori standard mondiali” e di “un programma di riconversione economica basato sulla progressiva chiusura delle fonti inquinanti”. Ma senza spiegare in dettaglio.
Tutto mentre il tempo sta per scadere. Gli stabilimenti che già furono dei Riva dovrebbero passare in mano agli indiani di Arcelor Mittal (vincitore della gara indetta dal ministero dello Sviluppo, ndr), entro fine giugno. Il problema, però, è legato al mancato accordo con i sindacati su stipendi e livelli di occupazione, con un rischio legato a circa 4mila esuberi. L’incontro tra azienda e governo, per ora, è stato congelato. Ma in attesa che il governo e Di Maio trovino una soluzione al dossier, tra le due anime della maggioranza è già partito lo scontro.
E la domanda resta: Ilva continuerà a produrre, seppur messa in sicurezza e risanata? O verrà chiusa, in modo più o meno graduale? In casa 5 Stelle non pochi puntano a questa seconda opzione, già da tempo: “Basta, siamo per la chiusura, ci sono già stati troppi morti. Si può riconvertire il lavoro con le bonifiche”, ha rilanciato ai microfoni de Ilfattoquotidiano.it il senatore Alberto Airola. E non è l’unico. In casa Lega, la pensano in modo opposto. Tanto che è stato lo stesso Siri a ribadire come la chiusura non sia sul tavolo. Così,ancora una volta, dal fronte governativo si predicano calma e silenzio. L’obiettivo? Allontanare lo scontro. O quanto meno rinviarlo: “Vedremo quale sarà la soluzione migliore per una materia strategica”, ha tagliato corto Fraccaro. Si è rifugiata nel silenzio, invece, Barbara Lezzi, leccese e neo ministro del Sud, che già in passato si occupò del caso. Tutto mentre anche da Confindustria chiedono garanzie sul futuro dello stabilimento, convinti che l’unica via sia quella del rilancio industriale.
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