Guardando lo schema proposto, cominciamo col porci la prima domanda: ma se è vero (come verissimo è) che il ‘profitto forte’ sta nelle attività del gruppo B, dove peraltro avevamo una presenza molto forte e profittevole, come ha potuto succedere che abbiamo perso la posizione? Ma è questo è il settore merceologico nel quale è possibile esprimere la nostra fantasia, il nostro estro, la nostra verve, così decantati da decenni a destra e a manca? E che ne è stato del prodigioso ‘made in Italy’? Davvero è credibile che il famigerato ‘costo del prodotto’ ne possa essere il massimo responsabile? O, per caso, ci sono state altre ragioni più profonde, meno evidenti, che fan sì che subiamo l’attacco degli stranieri che si acquistano proprio queste imprese e disdegnano quella dei macrobusiness del gruppo A? E perché siamo diventati una economia manifatturiera subalterna? Perché lavoriamo se qualche locomotiva a ‘sto mondo ‘tira’ altrimenti siamo mosci a terra sconsolati?

Io non riesco a capire come mai quelle imprese – che con la nostra conduzione traccheggiano asfittiche – facciano cotanta gola agli acquisitori stranieri. Sì, è vero, si inseriscono in un circuito tecnologico probabilmente (ma non sempre) più avanzato e fruiscono di qualche economia di scala (ma questo vantaggio è più difficile con reti internazionali), ma non abiurano affatto la tirannia dell’Euro. Se questi acquisitori stranieri comprano vuol dire che le nostre tecnologie e i nostri ‘sistemi di costo’ sono all’altezza delle loro aspettative. Non si sono visti roboanti investimenti nelle imprese del Gruppo acquisite da stranieri…

Diceva un papa amatissimo (Pio XI) che era di Desio (MI): ‘A pensàa mal se fa peccàa ma s’induina’ (a pensare male si fa peccato ma si indovina). E ci sarebbe da scommettere che la prima pensata del nostro Ministro Ministro dello Sviluppo Economico (ma anche mia, per la verità, tanti anni fa) fu di imprecazione alla nostra classe imprenditoriale. Troppi anni ho passato in mezzo a questi imprenditori ruspanti, sia in mezzo ai loro problemi che in mezzo alla loro cultura e alla loro mentalità. Non ne ho conosciuti soltanto due o tre ma ventisei, e tutti dall’interno dei loro problemi aziendali, cercando di aiutarli e tirandone fuori una buona quantità dai guai. Quante volte ho imprecato contro questa cultura che, nella migliore delle ipotesi era esclusivamente di taglio amministrativo ma quasi sempre, nei confronti dei rapporti col mercato, squisitamente naso-spanno-metrica, intrisa di un sapore profondo di vecchiume. E in queste mie esperienze le aziende ‘piccole’ erano la minoranza: c’erano anche colossi da duecento miliardi di lire/anno di cifra d’affari (anni ‘80/’90), condotte sempre con lo stile del ‘faso tutto mi’.

Poi la vita scorre e viene il momento del ritiro. Ma anche della riflessione serena. E in lunghi anni, ormai profondamente affezionatomi a questa disastrata plaga manifatturiera italiana, mi si sono affacciate riflessioni più pacate, più ponderate e ho capito – ormai ne sono certo – che il disagio profondo, quello che veramente li ha portati a cedere le redini a compratori per lo più stranieri, è stato generato ‘anche’ ma soprattutto ‘fuori’ dal loro mondo: in sede di ricerca scientifica sulle non risposte alle loro necessità di cultura gestionale aziendale moderna e in sede politica per la pesante e colpevole mancata assistenza e supporto da parte del Sistema-Paese. E così, soprattutto per la pesante responsabilità sociale di noi tutti, ci siamo tirati la zappa sui piedi e i nostri figli ne resteranno ammaccati per un bel pezzo. Bravissimi.

Fra l’alto, questa vecchiezza della manifattura italiana del gruppo B si è pure trasformata in una palla al piede per la manifattura italiana del gruppo A. Le aziende end use oriented (gruppo B) sono, lo si voglia o no, una sorta di locomotive per quelle del gruppo A. Sono dei cannocchiali verso il futuro, dei periscopi per scrutare il mondo cercando di intuirne il futuro. Se mediamente sono piccole, capirete benissimo che splendidi cannocchiali, che sguardo vero il futuro per se stesse e per tutta la manifattura italiana esse sono.

Senza contare poi che nel gruppo A, proprio per la loro impostazione arcaica, e proprio per il loro funzionamento legato a continue emissioni di offerte tuttora fortemente basate su un tragico inganno, secondo antica tradizione casereccia: il prezzo d’offerta si fa soprattutto sulla base di ciò che si vorrebbe avere come utile sul costo del prodotto offerto. E così continua una tragica tradizione di sottomissione a ciò che il mercato di giorno in giorno ti offre.

In questo mondo della subfornitura è raro trovare aziende che abbiano davvero afferrato la verità profonda secondo la quale il ‘prezzo’ lo fa il mercato. E a chi offre viene offerta soltanto la chance di accettare o rifiutare quelle offerte. In ogni caso la soluzione ce l’abbiamo. Eh, maledetto il nostro ‘costo del lavoro’.

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