E’ finito il tempo delle risposte a brandelli, delle ricostruzioni a pezzi, degli scenari con un colpo di luce accanto a una zona d’ombra, delle sentenze con i buchi. Dei silenzi, dei falsi, dell’omertà. Per la prima volta dal 1991 a Livorno il 10 aprile non è solo il giorno per ricordare. Per la prima volta il quadro del disastro del Moby Prince ritrova molti tasselli al proprio posto. “Elementi che forse nessuno ha voluto cercare prima” li ha definiti Silvio Lai, il presidente della commissione d’inchiesta che ha lavorato per due anni per riscrivere la verità sul più grave incidente del mare in Italia dal Dopoguerra con il suo carico di 140 morti, cioè i passeggeri e i membri dell’equipaggio del traghetto che, appena partito dal porto di Livorno, era diretto ad Olbia e invece finì contro una petroliera, la Agip Abruzzo, armata da una società dello Stato Le conclusioni della commissione – miracolo – sono state approvate all’unanimità e dicono, in breve, che la petroliera era ancorata dove non poteva stare, che la causa della collisione non poteva essere la nebbia, che il traghetto ha deviato la sua rotta all’improvviso per una “turbativa”, che a bordo dello stesso traghetto non morirono affatto tutti in mezz’ora ma alcuni sopravvissero per ore, che la Capitaneria di porto fu incapace di gestire i soccorsi, che le opacità furono alimentate dalle testimonianze dell’equipaggio della petroliera e dalla stessa Snam (una società di Stato, omonima di quella attuale), che una singolare velocità con cui le compagnie di navigazione (la Navarma poi diventata Moby e la Snam) trovarono un accordo assicurativo pose “una pietra tombale su qualunque ipotesi conflittuale sulle responsabilità”. Un lavoro meticoloso, frutto del lavoro dei senatori (con decine di ore di audizione dei testimoni) insieme a quello di magistrati, professori universitari, tecnici di polizia scientifica, esperti di diritto della navigazione e soccorso in mare.

Molto è stato spiegato, dunque. Non tutto: “Penso che sia doveroso riaprire il dossier – dice Lai, ex senatore del Pd – Ma il magistrato deve poi decidere se ci sono soggetti da rinviare a giudizio. Certo, sono passati più di 25 anni, ci sono le prescrizioni. Ma noi confidiamo che la magistratura faccia quello che è in suo potere fare”. In Procura, a Livorno, arrivano tutti gli incartamenti: la relazione conclusiva, i rapporti dei consulenti, le informative, i documenti ritrovati e acquisiti. E’ proprio questo, allora, dice il sindaco Filippo Nogarin, “il momento per urlare con forza e chiedere con vigore le risposte che ancora mancano“. Restano ancora delle domande: “Perché – si chiede Luchino Chessa, figlio del comandante del Moby, Ugo – l’Agip Abruzzo ha attirato tutti i soccorsi verso di se e nessuno dalla plancia di comando ha comunicato che c’era un traghetto in collisione? E’ stata solo superficialità ed incompetenza delle autorità inquirenti e giudicanti dell’epoca?  Quali scheletri negli armadi hanno portato ad accordi  tra le assicurazioni delle compagnie armatoriali? Esiste un possibile rapporto tra questi accordi e tanti dubbi sugli scali precedenti l’arrivo a Livorno della petroliera? Che ruolo ha avuto la compagnia armatoriale del Moby Prince in tali accordi?”.

Il livello di responsabilità si alza
Il lavoro della commissione, d’altra parte, per la prima volta ha alzato il livello a cui cercare responsabilità. Per la prima volta, dopo oltre 25 anni, si è indagato sulle società armatrici e sulle loro assicurazioni, per la prima volta si sono recuperate carte incredibilmente inedite, come i documenti di carico e di viaggio della petroliera. Da lì, forse, la Procura può prendere di nuovo ago e filo e ricominciare a cucire. Tra i punti dai quali riprendere c’è per esempio il viaggio dell’Agip Abruzzo prima di fermarsi a Livorno. Ancora oggi, dopo tutto questo tempo, le versioni sono tre, come illustra la videoricostruzione del fatto.it sulla base dei dati della commissione.

Videoricostruzione di Emilia Trevisani

E’ servito un blitz della Guardia di Finanza per recuperare alcune carte. E non ha contribuito l’equipaggio della petroliera. Scrive la commissione: “Il periodo di incaglio (tra il Moby e la petroliera, ndr) rende difficilmente comprensibile il comportamento tenuto dall’equipaggio della petroliera sul mancato riconoscimento del traghetto”. Di più: “In generale le dichiarazioni” dei marinai della petroliera “appaiono coordinate e finalizzate a sollevare da qualsiasi responsabilità la società armatrice e il comando della petroliera”.

L’esperto alla commissione: “La Marina abdicò ai suoi compiti”
Ma anche un altro aspetto – il più doloroso – di questa storia, quello dei soccorsi, raggiunge un livello superiore. Le accuse della commissione alla Capitaneria di porto hanno il ritmo di un tamburo. La Capitaneria non cercò mai il traghetto. La Capitaneria non tentò mai di mettersi in contatto via radio con le imbarcazioni appena uscite dal porto. La Capitaneria non prevedeva formazione e addestramento per eventi del genere. La Capitaneria non valutò mai l’incidente nella sua gravità. Un contesto che provoca “sconcerto”, scrivono i senatori. Inadeguatezzaimpreparazioneincapacità sono le parole usate.

Ma soprattutto la Capitaneria non coinvolse mai il comando superiore della Marina Militare, quello dell’Alto Tirreno a La Spezia, nonostante sapesse di avere dei mezzi di soccorso risibili. E, in senso inverso, la Marina Militare – nonostante sapesse cosa stava accadendo – non prese mai in mano la situazione. La Marina, a Livorno alla Spezia, abdicarono “all’espletamento dei compiti“, come sostiene in una consulenza depositata in commissione il professor Umberto La Torre, ordinario di diritto della navigazione all’università Magna Grecia di Catanzaro. D’altra parte in questa storia torna sempre, come un’eco, la relazione consegnata a una commissione ministeriale venti giorni dopo l’incidente dall’ammiraglio Giuseppe Francese, all’epoca capo delle Capitanerie, che ammise che un coordinamento dei soccorsi non fu degno di questo nome fino alle 5 del mattino, cioè sei ore e mezzo dopo il disastro.

La Torre sottolinea che i soccorsi la sera del 10 aprile confluirono in un primo tempo solo sulla petroliera. Ma anche in quel caso “lo spegnimento dell’incendio si deve al coraggio dei rimorchiatori della Fratelli Neri“, coordinati dallo stesso armatore “e non da alcuna autorità pubblica“. E anche quando il Moby Prince venne finalmente trovato (per caso, senza essere cercato) – un’ora e mezzo dopo la collisione -, “ben pochi risultati sono stati ottenuti in tema di salvaguardia della vita umana”.

Il decreto del 1978, un manuale di istruzioni. Ignorato dalla Marina
Eppure da 13 anni, ricorda La Torre, esiste un decreto ministeriale che quasi guida per mano la Marina Militare per permetterle di portare al massimo il coordinamento e la potenza dei soccorsi. Il decreto dice che l’autorità marittima può ordinare alle navi nelle vicinanze di mettersi a disposizione (come accadde nel 2012 per la Costa Concordia, quando i mercantili di passaggio furono fatti avvicinare all’isola del Giglio pronti a caricare eventuali naufraghi, dice che la Capitaneria coordina i soccorsi, individua e assegna compiti a pubblici e privati, italiani o stranieri, dice che la Capitaneria ha il compito di facilitare le comunicazioni tra i soccorritori. 

Ma il decreto soprattutto mette in mano a tutta la scala gerarchica della Marina Militare anche le istruzioni per l’uso su come comportarsi in incidenti di diversa gravità. “Una disciplina minuziosa” come scrive La Torre. La legge distingue tra “prima situazione operativa” e “seconda situazione operativa“. La prima è quella che la Capitaneria può affrontare da sola. La seconda è attivata quando la Capitaneria avvisa l’alto comando periferico (in questo caso La Spezia) che può assumere la guida dei soccorsi. Ed è un fatto che il vicecomandante della Capitaneria, Angelo Cedro, il più alto in grado al momento dell’incidente, aveva informato correttamente sia il comando della Marina a Livorno sia quello dell’Alto Tirreno, a La Spezia. Ma quelle comunicazioni non hanno mai avuto un seguito. Né sono state alimentate da Sergio Albanese, comandante della Capitaneria di Livorno arrivato a soccorsi in corso perché era fuori sede.

Gli alti ufficiali della Marina dovevano controllare. Ma non lo fecero
Il comando di La Spezia, dunque, continua La Torre, “quale corresponsabile dell’esecuzione efficace delle operazioni, avrebbe dovuto esercitare sull’ente subordinato la propria vigilanza ed il necessario controllo”. E quando si fosse accorto che niente andava per il verso, avrebbe dovuto intervenire: “Per il caso di ravvisata inadeguatezza o inefficacia delle attività poste in essere, avrebbe potuto e dovuto dare diretta attuazione, avocando a sé il controllo operativo”. I vertici della Marina dell’Alto Tirreno, al contrario, non mossero un dito, non dissero una parola. Lasciarono che i soccorsi nel mare di Livorno – con un traghetto passeggeri avvolto dal fuoco e una petroliera circondata dal mare in fiamme – rimanessero in capo a due motovedette, guidate da un ammiraglio che rimase sempre in silenzio per tutto il tempo di un soccorso che non ci fu mai. Un ammiraglio che prese il controllo dopo essere rientrato da una cena per un passaggio di consegne di un superiore. Dove? Proprio a La Spezia.

Intervista di Emilia Trevisani

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