di Riccardo Stifani

Il ruolo giocato dalla diplomazia francese nel caso LafargeHolcim rimane poco chiaro anche ora che l’ex ambasciatore francese in Siria, Éric Chevallier (nella foto), ha ammesso – tramite una lettera inviata ai giudici il 15 gennaio 2018 – di aver effettivamente avuto, nell’estate del 2012, un colloquio con i dirigenti della filiale siriana dell’azienda.

Il colosso francese della produzione cementifera Lafarge – diventato LafargeHolcim in seguito alla fusione con l’omonimo gruppo svizzero nel 2015 – è stato posto sotto accusa nell’ottobre del 2016 dopo che un’inchiesta del quotidiano Le Monde del giugno dello stesso anno aveva rivelato l’esistenza di rapporti tra i dirigenti del cementificio e alcuni gruppi terroristici. In particolare, il gruppo franco-svizzero è sospettato di aver finanziato l’Isis tra il 2011 e il 2014, in modo da riuscire a mantenere attiva la filiale da 680 milioni di dollari inaugurata alla vigilia dello scoppio delle manifestazioni anti-governative, a Jalabiya, nel nord-ovest della Siria, a pochi chilometri da Raqqa, che sarebbe diventata una delle “capitali” del sedicente Stato islamico.

Mentre le altre multinazionali francesi stanziate nell’area – come Total e Bel – hanno subito provveduto ad interrompere la propria produzione, la Lafarge ha scelto di farla proseguire lasciando la gestione della stessa ai soli impiegati locali.

I finanziamenti venivano effettuati tramite versamenti mensili da 20mila dollari consegnate con la mediazione di Firas Tlass – figlio dell’ex ministro della Difesa di Bashar al-Assad – sotto forma di spese di rappresentanza. Lo scopo principale di quei soldi era assicurare che le merci e i dipendenti dell’azienda riuscissero a passare i checkpoint disposti nei pressi del sito. Ulteriori flussi di denaro nelle casse dei terroristi sono stati necessari perché venissero rilasciati alcuni dipendenti alawiti – ritenuti vicini al regime e sequestrati nel 2012 – per il cui rilascio sono stati richiesti 200mila dollari.

Inoltre, il gruppo di dirigenti della Lafarge – composto da Bruno Lafont, Bruno Pescheux e Frédéric Jolibois  è indagati anche per “violazione del regolamento europeo, in quanto non è stato rispettato l’embargo imposto dall’Unione europea sull’acquisto di greggio in Siria, fondamentale perché le attività dell’impresa potessero continuare.

Stupisce che all’interno di questo scenario manchi una presa di posizione chiara del ministero degli Affari Esteri francese, che nella persona di Éric Chevallier – all’epoca dei fatti ambasciatore in Siria – ha in un primo momento affermato di essere completamente all’oscuro dei fatti, negando quanto invece sostenuto dall’ex direttore generale della Lafarge, Christian Herrault.

La versione di Herrault, infatti, non solo ricorda l’ambasciatore come al corrente della vicenda, ma ne descrive in più occasioni la tenacia nell’incitare il gruppo dirigente a restare sul territorio siriano. Quest’insistenza quasi ossessiva, unita ad un probabile avvicinamento dei servizi segreti, infittiscono maggiormente il mistero. Quale guadagno avrebbe potuto avere la Francia dalla permanenza di una sua azienda in uno scacchiere così sensibile?

Nella prospettiva di un conflitto di breve durata, lo stabilimento Lafarge sarebbe servito come punto di riferimento per la ricostruzione della regione e – nel caso di abbattimento del regime di Assad – per la stabilizzazione dell’influenza francese nell’area. Gli sforzi di mantenere l’attività si dimostreranno però completamente vani quando, nel settembre del 2014, il cementificio passerà definitivamente sotto il controllo dei militanti jihadisti.

Le dimissioni del Ceo di LafargeHolcim, Eric Olsen (luglio 2017) e il riconoscimento da parte di Éric Chevallier dei colloqui avvenuti nell’estate del 2012 ampliano gli effetti di uno scandalo che potrebbe avere ripercussioni importanti per la diplomazia francese, incapace al momento di giustificare l’ambiguità del proprio atteggiamento.

 

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