Colpo di scena al processo Aemilia. Nuovi capi di imputazione, dalla ricettazione al riciclaggio, dal reimpiego di denaro sporco alle minacce rivolte ad imprenditori e figure istituzionali. Nuovi nomi che entrano nella lunga lista degli accusati e imputati già noti che salgono ai vertici della cosca con ruoli di direzione e organizzazione delle attività illecite dentro e fuori dal carcere. Infine un nuovo arco temporale, allungato fino ad oggi, per le azioni criminose di cui rispondono dalla primavera del 2016 nell’aula bunker di Reggio Emilia i 147 rinviati a giudizio.

Prima che il giudice Caruso dichiari chiusa l’udienza, alle 13.30 di giovedì 8 febbraio, si alza il sostituto procuratore della Direzione Antimafia Beatrice Ronchi e chiede di poter depositare una nuova formulazione dei capi di imputazione. Riguarda il 416 bis, l’accusa di associazione di stampo mafioso che interessa 34 imputati, mentre altri 20 hanno scelto il rito abbreviato. Per tutti loro i fatti contestati andavano dal 2004 al gennaio 2015 ma ora il termine viene posticipato alla data odierna, con la sola esclusione dei due collaboratori di giustizia Antonio Valerio e Salvatore Muto. Questo perché tutti, anche dopo gli arresti, confermarono secondo la Direzione Antimafia “l’adesione alle regole e alle strategie della ‘ndrangheta”. Lo fecero “in complicità anche con altre persone, alcune già identificate”. Come Carmine Sarcone, residente a Bibbiano e recentemente arrestato a Cutro, fratello del capo assoluto in provincia di Reggio Emilia, Nicolino, di Gianluigi e di Giuseppe detto Peppe. I primi due sono in galera dal 2015, il terzo ancora in libertà. Nicolino è stato condannato nel rito abbreviato a 15 anni con sentenza confermata anche in appello. Altri complici sono classificati nel nuovo atto come “ancora in parte non identificati”, segno di indagini che proseguono e di novità presumibilmente legate ai tanti omissis presenti nei verbali d’interrogatorio dei pentiti.

Le nuove accuse più pesanti si concentrano proprio su Gianluigi Sarcone, attualmente in carcere lontano da Reggio Emilia, spostato dopo la sua recente richiesta di separazione dagli altri detenuti, e su Luigi Muto, attualmente a piede libero. Il primo “dal momento dell’arresto nel gennaio 2015 assumeva dall’interno del carcere un ruolo di direzione e di organizzazione della associazione di stampo mafioso, nei confronti sia degli altri sodali detenuti che di quelli in libertà, anche grazie all’azione di raccordo attuata dal fratello Carmine”. Il secondo “aveva contatti diretti anche con Grande Aracri Nicolino per relazionarlo sulle attività imprenditoriali emiliane e svolgeva il ruolo di collettore tra i vertici della cosca cutrese e gli uomini del sodalizio emiliano”. Rimasto in libertà dopo gli arresti del 2015 “assumeva un ruolo di direzione e di organizzazione mettendosi a disposizione per fornire appoggio, assistenza e aiuto ai detenuti. Assicurava contatti e scambi di informazioni tra loro e gli esponenti in libertà della cosca grazie ai colloqui in carcere con il cugino Salvatore e il fratello Antonio, finiti in galera”.

Dei Muto si sottolineano sempre gli anni di nascita, perché a processo in Aemilia ce ne sono ben nove: sei nel rito ordinario e tre nell’abbreviato. Quattro di loro, per complicare le cose, si chiamano Antonio. Il Muto Luigi che sale di grado in questa fase del processo è nato nel 1975 a Crotone e risiede a Reggio Emilia. Secondo la nuova imputazione si occupa anche di “gestione del patrimonio illecito della consorteria, degli investimenti e della gestione delle attività imprenditoriali intestate a compiacenti prestanome”.

Decisive per entrambi gli imputati sono state presumibilmente le dichiarazioni rese in aula dai collaboratori di giustizia, Giglio, Valerio e Salvatore Muto, assieme ai successivi riscontri. Cambia il capo di imputazione anche per il fratello di Luigi Muto, Antonio, attualmente in carcere, da non confondere con l’Antonio Muto di Gualtieri che secondo il collaboratore Vincenzo Marino aveva ipotizzato di eliminare un giornalista scomodo della provincia nei primi anni Duemila.

Braccio destro di Gianluigi Sarcone in carcere, prima a Bologna poi a Reggio Emilia, era secondo la nuova impostazione dell’accusa Gaetano Blasco, sia in riferimento ad attività di inquinamento delle prove che di intimidazione dei testimoni. Le sbarre da questo punto di vista non costituivano un ostacolo per gli uomini della ‘ndrangheta, che grazie anche all’utilizzo di un registratore/lettore e al via vai di chiavette e schede sd potevano dialogare, ricevere informazioni e dare ordini alle persone a piede libero. Stessa funzione di Blasco anche per Gianni Floro Vito, che assieme al fratello Antonio “afferma il proprio peso criminale in seno alla ‘ndrangheta sfregiando in carcere il volto del sodale Gabriele Valerioti e acquisendo così il grado dello sgarro”.

Sempre a Gianluigi Sarcone rispondeva Sergio Bolognino, fratello del capo Michele, divenuto “punto di riferimento per gli altri detenuti prima nella sezione A della Casa Circondariale di Bologna, poi nel carcere di Reggio Emilia, anche in occasione di pestaggi e di imposizioni ai danni di altri detenuti”.

Discorso a parte merita poi Pasquale Brescia, uno dei volti “presentabili” della consorteria emiliana, accolto per anni con tutti gli onori presso la Questura di Reggio Emilia e che a sua volta ospitava con tutti gli onori uomini delle Forze dell’Ordine e della Reggio bene nel suo maneggio totalmente abusivo con annesso ristorante, aperto alle porte della città. La nuova imputazione lo accusa, in complicità con l’immancabile Gianluigi Sarcone, di avere concepito dal carcere una strategia volta a minacciare figure istituzionali o imprenditoriali per riscuotere vantaggi dopo l’inatteso indebolimento della cosca derivante dalla operazione Aemilia. Furono loro a concepire “l’invio di lettere contenenti messaggi ricattatori (inoltrate anche ad alcune testate locali) nei confronti di importanti aziende e cooperative del territorio, quali IREN, TRANSCOOP, e nei confronti del sindaco Luca Vecchi, per costringerli a prendere posizione pubblica a favore dei detenuti al processo”. Ricordiamo che la lettera al sindaco portò all’apertura di un procedimento a sé stante per minacce che in primo grado ha mandato assolto Pasquale Brescia, ma evidentemente per la DDA quella missiva rientra in una strategia più complessiva della ‘ndrangheta emiliana che rafforza il capo d’imputazione dell’associazione mafiosa.

Il collegio dei giudici presieduto da Francesco Maria Caruso ha letto queste novità ai detenuti e agli avvocati difensori presenti in aula. Poi ha aggiornato l’udienza al 6 marzo prossimo, per i termini dovuti di legge in quanto la procedura prevede che si valuti il senso delle modifiche introdotte dall’accusa con la possibilità per le difese di opporsi nel caso vengano classificate come nuovi capi d’imputazione. Tutto è spostato avanti di un mese e prima di marzo le requisitorie non inizieranno. La parola fine sul primo atto del rito ordinario di Aemilia slitta e cadrà forse quando cadranno anche le prossime foglie: in autunno.

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