In vista di questa evoluzione verso un Paese di anziani, già a partire dagli anni ’90 il sistema pensionistico pubblico è stato radicalmente ripensato: nel 1992 il governo Amato ha alzato di 5 anni l’età pensionabile (a 65 per gli uomini e 60 per le donne) e portato da 15 a 20 anni la contribuzione minima per l’assegno di anzianità, oltre a costituire un sistema di previdenza complementare. Nel 1995 la riforma Dini ha introdotto il metodo contributivo, cioè il calcolo della pensione sulla base dei contributi versati e non dell’ultima retribuzione. Nel 1997 Prodi ha inasprito i requisiti per la pensione di anzianità (quella che si poteva chiedere dopo aver totalizzato 20 anni di contributi) e tra 2004 e 2005 il governo Berlusconi ha stabilito che già dal 2008 sarebbero stati necessari almeno 35 anni di contribuzione e 60 di età per lasciare il lavoro. Nel dicembre 2007 il secondo governo Prodi (all’Economia c’era Tommaso Padoa Schioppa) ha eliminato lo “scalone”, cioè appunto l’innalzamento da 57 a 60 anni dell’età anagrafica richiesta, introducendo un sistema di quote costituite dalla somma di età e anni lavorati. Nell’agosto 2009 il governo Berlusconi ha deciso che dal 2015 l’età di pensionamento avrebbe dovuto essere periodicamente adeguata all’incremento dell’aspettativa di vita.

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