“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”

Così, con un vero e proprio insulto, il professor Umberto Eco nel 2015, tra il serio e il faceto, tacciava gli odiatori da tastiera che popolano ogni giorno i social network. Oggi, il Paese è attraversato da un sentimento di disagio evidente. Nonostante la ripresa ci sia, cresce l’Italia del rancore, come sottolinea il recente rapporto Censis. Ma questo può bastare a spiegare tanta cattiveria e crudeltà riversata sui social? L’odio insieme al risentimento rappresenta una trappola pericolosissima, e chi non ci è mai cascato? Chi di noi non si è imbattuto in una feroce discussione in rete sfociata in improperi indicibili? Non solo con sconosciuti, ma anche con persone che si conoscono nella vita reale. Amici, parenti, vicini, che mai si permetterebbero di usare epiteti così coloriti nella vita quotidiana, sotto l’”effetto dei social network”, perdono qualsiasi freno inibitorio. Lasciando noi e gli altri lettori nello sgomento più profondo.

E se fossero i social network a renderci più cattivi di quanto non siamo nella realtà? Discutere e litigare non è certo una novità: lo facciamo da sempre. L’odio poi, è un sentimento che potremmo dire naturale. Infatti risiede nel cervello umano la tendenza a dividere il mondo tra chi è come noi e chi è “diverso” da noi. Una dicotomia naturale, che in un vortice di pregiudizi può trascinarci nell’infido regno dell’insulto, dove si perde di vista l’argomento stesso del contendere. A tutto questo però i social sembrano offrire un habitat ideale.

Infatti, amplificando la possibilità di incontro col “diverso” e mettendoci quotidianamente davanti a idee e pensieri spesso lontani da noi, senza mediazioni, e senza una preparazione adeguata alla tolleranza, trasformano lo schermo del telefonino in un vero e proprio campo di battaglia, in una gara spasmodica alla prevaricazione delle proprie idee su quelle degli altri. Contraddicendo nei fatti il nome stesso “social network”, che dovrebbe significare “rete sociale”, ma che diviene invece una rete vera e propria, dove ci ingarbugliamo tra le fila dell’ignoranza, dell’intolleranza, della superficialità. Tale livellamento culturale – e relativo decadimento lessicale – a volte miete vittime illustri, come nel caso dell’uscita di Mentana da Twitter per i troppi insulti ricevuti. Salvo poi coniare, in una sorta di vendetta 2.0, la geniale crasi webeti e non perdere occasione di “blastare” senza pietà i frequentatori più pungenti della sua pagina Facebook.

Può accadere addirittura di trovarsi quotidianamente davanti a insulti o addirittura a auguri di morte, come di recente è accaduto alla ‘iena’ Nadia Toffa, presa di mira dai fantomatici hater proprio nei giorni più difficili della sua vita. Questo crea ovviamente disagio e frustrazione, se non addirittura sconforto, come dimostrano alcuni studi: chi frequenta i social network è l’8% in meno propenso a fidarsi degli estranei. Certo, parliamo di una minoranza che inquina il dibattito pubblico, ma una minoranza rumorosa e molto agguerrita. E il sospetto che i social possano “far male” prende forma, anche in dichiarazioni quantomeno inquietanti.

Sean Parker, uno dei primi investitori di Facebook, ha dichiarato che “il social di Zuckerberg sfrutta le vulnerabilità psicologiche umane” alimentando paura e ansia di restare esclusi dal flusso inarrestabile di notizie, vere o false che siano. Tesi avvalorata scientificamente da un ex manager di Facebook, Chamath Palihapitiya che ha spiegato come “i cicli di feedback a breve termine che abbiamo creato, guidati dalla dopamina, stanno distruggendo il modo in cui la società funziona. Nel sistema di interazioni online basato su cuori, like e pollici all’insù, non c’è nessun discorso civile, nessuna cooperazione ma disinformazione e menzogna”.

Davanti ad accuse così pesanti, e così autorevoli, Facebook oggi cerca di correre ai ripari. Due ricercatori dell’azienda, David Ginsberg e Moira Burke, hanno infatti confermato “è vero, i social possono far male”, e hanno promesso investimenti per superare questo rischio. Preoccupazioni sempre più manifesta nel sondaggio apparso sulla piattaforma qualche giorno fa, in cui si chiedeva agli utenti se Facebook fosse “positivo per la società” o se “tenesse ai suoi utenti”.

Insomma, i social network in qualche modo ci fanno male. Anche se non dovremmo mai scordare che, come di tutti gli strumenti, resta fondamentale l’uso che ciascuno ne fa. Restare calmi e discutere con razionalità e rispetto. Argomentare e rendersi disponibili anche a cambiare idea davanti a motivazioni convincenti, possono essere delle buone pratiche per limitare l’odio. Mettersi in contatto, aiutarsi, cooperare, scambiarsi pensieri e opinioni, favorire valori positivi sono comportamenti assolutamente congeniali ai social network. Eppure, è come se ci fosse una sorta di “pudore del bene”. Il bene non fa rumore, ma merita di essere diffuso. Nell’era dell’individualismo, cercare di stare insieme, essere “social” per davvero, potrebbe essere un buon proposito per l’anno nuovo e una nuova avvincente sfida. Non solo in rete.

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