Altre 7 ore di audizione in Commissione banche per il capo della vigilanza di Bankitalia, Carmelo Barbagallo, durante le quali ha risposto (questa volta senza reticenze) alle domande dei parlamentari e, soprattutto, ha colto l’occasione per ribadire la visione di Via Nazionale sulle responsabilità che hanno portato al dissesto le quattro banche finite in risoluzione nel novembre 2015. La linea di difesa della Vigilanza non cambia: sul banco degli imputati ci sono gli azionisti, che non hanno “svolto il ruolo di selezione e vaglio dei vertici aziendali”, il consiglio d’amministrazione e il management, che “non hanno realizzato un modello di gestione sano e prudente”, e infine i meccanismi di controllo interno che “non hanno funzionato”.

In particolare, secondo Barbagallo, sulla qualità della governance di Banca Marche, CariChieti e CariFerrara ha inciso soprattutto la strategia delle Fondazioni controllanti volta a conservare il proprio ruolo dominante, strategia che ha impedito il ricorso al mercato dei capitali e ha determinato “atteggiamenti ostili a soluzioni aggregative”. Per quanto riguarda Etruria, invece, “al debole controllo degli azionisti ha fatto riscontro l’autoreferenzialità dei vertici aziendali, decisi a mantenere condizioni di autonomia anche a fronte di una situazione sempre più critica”.

Barbagallo ha poi ricordato l’azione incalzante della vigilanza fin dal 2008 con “l’assunzione di provvedimenti di intensità crescente” e con l’utilizzo di “tutti gli strumenti a disposizione”: sono stati richiesti piani di rafforzamento patrimoniale, il ricambio degli organi amministrativi e di controllo, l’aggregazione con altre banche, mentre con l’emergere di irregolarità sono state effettuate una ventina di segnalazioni all’autorità giudiziaria e sono state comminate sanzioni per oltre 13 milioni di euro.

A fronte di tutto ciò, le risposte delle quattro banche sono state insoddisfacenti: “I rafforzamenti patrimoniali non si sono talvolta nemmeno realizzati, i ricambi degli esponenti di vertice non ne hanno migliorato i comportamenti, la pervicace difesa dell’autonomia ha scoraggiato la ricerca di potenziali acquirenti”. Di qui Barbagallo ha gioco facile a chiarire che “le autorità di vigilanza non possono sostituirsi ai soggetti vigilati – che, non va dimenticato, sono imprese – per evitare che la situazione degeneri” e ha richiamato ancora una volta alle proprie responsabilità gli azionisti di maggioranza, le assemblee dei soci, i consigli d’amministrazione e i collegi sindacali.

Tutto vero, tutto giusto, ma in questo mettere al loro posto i ruoli e le responsabilità Barbagallo si è dimenticato di almeno due cose. La prima, che è sotto gli occhi di tutti, è che se la Banca d’Italia ha fatto davvero tutto quanto in suo potere e in ben 7 anni non è riuscita a farsi valere evitando che si arrivasse al capolinea, allora c’è qualcosa di profondamente sbagliato nell’intero sistema e il ruolo stesso della Banca d’Italia e dell’azione vigilanza appare sostanzialmente inutile. Soprattutto non si può sostenere che la distruzione di risparmi che si è prodotta con la risoluzione delle quattro banche fosse alla fine il male minore a fronte dei ben più gravi danni che avrebbero prodotto il bail-in o la liquidazione coatta amministrativa.

Se in 7 anni le raccomandazioni della Banca d’Italia non sono state implementate e la situazione ha continuato a degenerare c’è una responsabilità anche della Banca d’Italia stessa, che nell’ambito dei suoi poteri avrebbe potuto richiamare da subito l’attenzione degli azionisti e delle assemblee imponendo la lettura pubblica di una propria lettera nella quale far presente i rischi della situazione e chiedere discontinuità ex ante, e non ex post come fatto da Barbagallo in Commissione banche. Rendere pubblico il proprio disappunto avrebbe potuto aiutare le quattro banche a rimettersi in carreggiata? Questo non possiamo saperlo, ma avrebbe senz’altro evitato che molti correntisti si fidassero ciecamente della propria banca acquistandone azioni e obbligazioni subordinate senza sospettare minimamente che in realtà ci si stava avvicinando al baratro.

Tanto poco bastava e non è stato fatto. Non solo. Nessun commissario si è peritato di ricordare a Barbagallo che quando la Banca d’Italia e la vigilanza hanno voluto, hanno fatto uso preventivo del commissariamento: è accaduto ad esempio con la piccola Bene Banca, senza che ricorressero i gravi presupposti previsti dal Testo unico bancario, ossia la presenza di gravi perdite patrimoniali e/o a gravi irregolarità. Quando l’istituto di Bene Vagienna è stato commissariato (aprile 2013) godeva di ottima salute, come testimoniano anche i dati di bilancio: al 31 dicembre 2012 il margine operativo lordo era positivo per 12,6 milioni (+237% rispetto al 2011), il Roe era del 16,03%, le sofferenze ammontavano al 7% del totale crediti (la media delle banche era del 9,4%). Anche le gravi irregolarità non le ha viste nessuno e il commissariamento è durato appena 13 mesi, il più breve della storia. Una vicenda, quella di Bene Banca, che spiega come in realtà i margini di discrezionalità della Banca d’Italia sono sempre stati ampi e la scelta se commissariare o meno è sempre stata essenzialmente solo una scelta politica: forti con i deboli, i piccoli, gli ininfluenti, attendisti e prudenti in tutte le situazioni in cui vi sono invece interessi forti, intrecci di potere, peso politico. Non a caso, come detto dallo stesso Barbagallo, le quattro banche (ma il discorso si potrebbe estendere anche alle venete, per non parlare di Mps) sono state commissariate come ultima ratio e quando ormai era evidentemente troppo tardi.

Nel corso dell’audizione Barbagallo ha poi sottolineato che Via Nazionale non ha “né chiesto, né incoraggiato, né tantomeno favorito la Popolare di Vicenza ad acquisire Banca Etruria” e che quando l’istituto guidato da Gianni Zonin espresse interesse ad acquisire la popolare dell’Etruria, cioè nel giugno 2014, “per noi la situazione di Vicenza in quel momento risaliva all’ultima ispezione del 2012 da cui emergeva un’ampia capienza patrimoniale, senza una rischiosità enorme. Era una banca nella media. Solo con il comprehensive assessment del 2014 scopriamo una situazione diversa”. Dev’essere per questo che, proprio nel 2014, la Banca d’Italia cederà alla Popolare di Zonin Palazzo Repeta, la sede vicentina dell’istituto centrale, per ben 9 milioni di euro, la stessa cifra alla quale nei cinque anni precedenti Bankitalia aveva tentato inutilmente di venderla.

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