“Lance libere” di colpire, criticare, inveire contro le ingiustizie e i mali del mondo. Così, romanticamente, si potrebbe tradurre la parola free lance, che nel giornalismo sta a indicare persone che non vogliono dipendere da un giornale, ma conoscere e osservare il mondo con i propri occhi e scriverne in maniera indipendente, libera e in totale assenza di vincoli. Nel mondo anglosassone il freelance è una figura rispettata, le redazioni hanno addirittura stanze dedicate a loro.

Sono giornalisti e fotografi che realizzano servizi anche importanti, pagati molte centinaia di euro perché, comunque, i giornali che li comprano, oltre ad acquistare reportage e articoli di qualità, non versano contributi e tasse. In breve, non hanno i costi che hanno con i propri dipendenti. Per questo, com’è giusto che sia, un lavoro di un esterno viene pagato di più.

Da noi la situazione è sempre stata diversa. I freelance si chiamano più facilmente “collaboratori“, anche se in teoria questa parola sarebbe più appropriata per persone che hanno un altro lavoro e quando possono e vogliono scrivono anche per i giornali. Invece così non è. Da noi, i collaboratori sono giornalisti veri e propri, semplicemente non hanno un contratto. Vivono dei pezzi che scrivono, fuori dalle redazioni, nelle loro case, chi può permetterselo nei coworking. Negli anni sono diventati migliaia e migliaia, e presto saranno la maggioranza dei giornalisti italiani, anche se i lettori – e i politici –  di questo poco o nulla sanno.

Ci sono stati anni in cui fare il freelance in Italia era ancora possibile, perché gli articoli erano dignitosamente pagati e la frequenza di scrittura era assidua. Col passare del tempo, la crisi dei giornali di carta e il passaggio al web, i compensi sono stati drasticamente ridimensionati (mentre i giornali hanno cominciato a premere sugli interni, che pure hanno i loro problemi, perché scrivessero di più). E poi ancora, negli ultimi anni, tagliati in maniera selvaggia, arrivando a cifre con le quali non è possibile sopravvivere. Spiccioli, sui quali comunque bisogna togliere i contributi, le tasse, le spese per l’assicurazione medica per chi ce l’ha, la formazione obbligatoria (in parte a pagamento), la strumentazione che serve (computer, cellulare, videocamera). In pratica, tolte le spese, non rimane quasi nulla di che vivere.

Tutto questo è successo per vari motivi. Da un lato, la crisi delle vendite, le scarse entrate di pubblicità, che ancora non consente ai giornali web di sopravvivere (specie per quei giornali seri che continuano le loro inchieste e non si fanno comprare), ancora la follia delle notizie date in abbondanza senza far pagare nulla e abituando il lettore italiano medio a pretendere notizie imparziali, ricche e continue senza dare nulla in cambio.

Dall’altro lato, la precarizzazione selvaggia del nostro mercato del lavoro, che ha consentito praticamente qualunque forma di (non) contratto. L’appartenenza a un Ordine, in questo senso, non ha in alcun modo arginato questo fenomeno, anzi ha contributo a fare ombra su ciò che succedeva nel nostro settore. Mentre il mondo – e i governi – credevano o facevano finta di credere che la presenza di un Ordine bastasse a garantire chi ne faceva parte. Niente di più falso.

Da ultima parte, l’incredibile disinteresse dei sindacati verso il mondo dei freelance: un’indifferenza gravissima, colpevole, continua. Per tagliare un compenso a un collaboratore non serve neanche una telefonata, basta una mail, e nessuno, ma davvero nessuno, se ne accorge. Eppure, i dati ci sono. Basterebbe andare a vedere le retribuzioni annuali medie degli iscritti alla Gestione separata dell’Ipgi 2, l’ente previdenziale dei lavoratori autonomi dei giornaliper capire in che situazione di disperazione vivono migliaia di giornalisti che magari firmano in prima pagina: poche migliaia di euro l’anno, nessuna tutela in caso di malattia  – quella malattia che pure è finalmente stata garantita ai lavoratori autonomi, ma paradossalmente solo se non appartenenti ad un Ordine – niente ferie, nessuna pensione.

Il sindacato dei giornalisti, la Fsni, tutela esclusivamente i lavoratori dipendenti, arrivando persino ad auspicare – è stato il caso della trattativa per la crisi del Sole 24 ore – il taglio di tutte le collaborazioni per salvare gli interni. D’altronde, è stata proprio la Fsni a firmare un accordo vergognoso, quello che ha sancito la fine dei free lance, invece che la loro tutela, nel giugno del 2014 con la Fieg (gli editori), il governo (sottosegretario all’Editoria Luca Lotti) e l’Inpgi, ma senza la firma dell’Ordine dei giornalisti, un fatto davvero inverosimile.

Questo accordo sull’“equo” compenso, tanto per fare un esempio, stabiliva tariffe minime di 20,8 euro lordi per un pezzo dei quotidiani, di 6,25 euro per le agenzie. “Neanche i soldi per il pane” aveva dichiarato in quella occasione il presidente dell’Ordine, facendo un esempio inequivocabile: una persona che scrivesse 432 articoli in un anno (praticamente più di uno al giorno, una cifra impossibile) guadagnerebbe 6.300 euro l’anno lordi.

E queste sono, d’altronde, le cifre che la maggior parte dei giornalisti lavoratori autonomi percepiscono. A loro però viene chiesto il massimo della disponibilità, il massimo della rapidità, il massimo dell’esattezza e ricchezza di notizie, esattamente come si chiede a un interno, che guadagna dieci volte tanto. E il lettore che legge, o che commenta sul web, protestando, criticando, invitando l’autore a darsi all’ippica e via dicendo non sa che, magari, quel giornalista ha percepito pochi euro, se non, talvolta accade anche quello, proprio nulla.

Della situazione dei giornali e del mondo giornalistico, dove da un lato hai un Fabio Fazio che percepisce milioni, dall’altro un freelance iperformato e magari di talento che ne guadagna venti a pezzo, nessuno parla, perché sono gli stessi giornali a non volerla denunciare. E perciò, forse, è una delle forme di ingiustizia che viene meno indagata ed esposta alla luce del sole. Esclusi dalle redazioni, chiusi nelle loro case, privi di un rappresentante dei loro diritti all’interno delle redazioni, mai consultati, primi a saltare e ad essere tagliati, senza tutele, senza ferie, senza pensione. Isolati, incapaci di unirsi, di scioperare, anche (ma d’altronde come?).

Questa è la situazione della maggioranza dei giornalisti italiani, di cui forse sarebbe giunto il momento di parlarne perché, tra poco, questo sistema non sarà più sostenibile. Nel frattempo, quelli che non si rassegnano a morire di fame, e che non sono troppo anziani, si riciclano come uffici stampa, comunicatori o altro ancora. Ma con la morte nel cuore, perché il giornalismo, nonostante tutto, è un mestiere che si sceglie per passione. E per questo lo si vorrebbe continuare a fare. Basterebbe poco, basterebbero condizioni minime migliori.

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