Chiamiamo le cose con il loro nome. Primo per evitare confusioni logico-verbali, secondo per non subire il potere, terzo per farci del bene. Il dl Enti locali appena approvato in via definitiva alla Camera (che diventerà legge entro il 18 agosto) taglia 2,3 miliardi di euro al fondo sanitario, ridotto a 109,7 miliardi per il 2015. Nel 2010 era di 112,6 miliardi. Tanto per toglierci le bende dagli occhi. Checché ne dica il ministro Lorenzin (“Non si tratta di tagli ma di risparmi”). Che poi dai tagli seguiranno dei risparmi è quello che ogni cittadino vorrebbe ben sperare.

Altrimenti i tagli apriranno soltanto voragini. Un risparmio, in un sistema biopolitico (il nostro, cioè che mira al benessere della società), è un taglio di sprechi. Dove sono i tagli? Dove i risparmi? E gli sprechi? Queste sono le domande che dobbiamo farci se non vogliamo prendere lucciole per lanterne. Il timore è che, quando non ci sarà il risparmio, cioè un taglio degli sprechi, a farne le spese saremo noi, di tasca nostra. E a guadagnarci sarà la sanità privata e il mondo delle assicurazioni.

C’è una premessa da fare. Il budget sanitario di uno Stato in teoria deve aumentare di anno in anno. I nostri deputati ne sono perfettamente coscienti. In un’indagine conoscitiva (pubblicata nel giugno 2014) la Camera scrive: “La prevista riduzione della spesa, tuttavia, non sembra tener conto dell’incremento degli oneri, stimato intorno al 2 per cento e considerato sostanzialmente inevitabile in tutti i sitemi sanitari in quanto determinato dall’introduzione di nuove tecnologie e dall’invecchiamento progressivo della popolazione”. A cui va aggiunto il caro prezzi di beni e consumi. Ma niente, noi si va avanti col paraocchi. E così, in Italia cinque anni fa la spesa sanitaria rappresentava il 9,3 per cento del pil, nel 2014 il 6,9. L’Ocse in un rapporto uscito a luglio, relativo al 2013, rileva che l’Italia spende meno di Grecia e Portogallo rispetto al prodotto interno lordo: 8,8 per cento contro, rispettivamente, il 9,2 e il 9. La Germania l’11, la Francia il 10,9.

Passiamo alla prima domanda. Dove sono i tagli? Nella riduzione di esami inappropriati. La stretta riguarda 180 prestazioni su 1700 erogate dal servizio sanitario nazionale. Con una serie di eccezioni (che poi verranno definite). Il medico che sgarra verrà punito con un taglio dello stipendio. I medici sono imbufaliti. Da una parte è giusto tagliare la medicina difensiva, un danno per anima, corpo e portafoglio. Ma una sanzione del genere costringe il medico a non fare più il medico. Perché il medico, almeno all’inizio, non ha in testa certezze ma sospetti. E allora razionalizzerà sui sospetti a danno di una giusta diagnosi. Oppure, mi ha detto il segretario della Fimmg (la Federazione italiana dei medici di famiglia), su dieci prestazioni da fare, ne prescriverà 5 a carico del Ssn e 5 a carico del paziente. Ma tra noi chi avrà ogni volta i soldi per pagarsi un esame privato? Di sicuro sarà un esercizio di buon senso per entrambi, medico (che prima non badava a prescrizione, magari dietro qualche favore) e paziente (che non può chiedere la luna per una semplice febbre).

Ma il rischio è che nello stesso tempo ci rimetta anche la nostra salute. Meno prevenzione, più trascuratezza (e aumento della mortalità?). Secondo il Censis, nel 2012 nove milioni di italiani hanno rinunciato a curarsi per questioni economiche. Nel frattempo nei pronto soccorso il personale è all’osso, mancano le barelle e i pazienti stazionano per ore (o giorni) sulle barelle lungo i corridoi. Il solito dramma quotidiano da troppi mesi. Causa tagli e blocco del turn over. Ma i soldi levati al fondo verranno usati per tappare questi buchi? La sanità ha bisogno di soldi, non c’è nulla da fare.

Proseguiamo. Altre voci di taglio riguardano la riduzione dei ricoveri inappropriati in strutture private con meno di 40 posti letto (mi sembra una cosa sensata) e l’eliminazione di 15 centrali operative del 118. Poi c’è il capitolo farmaci. Si prevede la rinegoziazione del prezzo dei farmaci quando i benefici dopo almeno due anni di commercializzazione risultano inferiori alle aspettative (altra cosa sensata) e, entro il 30 settembre, una generale rinegoziazione del prezzo dei farmaci raggruppati per aree terapeutiche omogenee che però a causa di due emendamenti votati in Senato e voluti dai vertici della Fofi (la Federazione nazionale degli ordini dei farmacisti) fa un regalo alle industrie del farmaco.

Quindi, un risparmio a metà. Infine ritrattazione dei contratti per i dispositivi medici sempre per abbattere i prezzi e istituzione di un osservatorio ad hoc. Che bella notizia. Ma basta per risparmiare? Vediamo. La parola magica, che nell’ultimo periodo è finita nella bocca di molti politici, è centrale di acquisto regionale. Esistono da qualche anno, una o più per regione, e gestiscono acquisti aggregati per il settore pubblico di una serie di beni, tra cui farmaci e dispositivi medici per gli ospedali. Obiettivo: standardizzare i prezzi, evitare che un ospedale spenda il quadruplo di un altro a 50 chilometri di distanza per lo stesso prodotto. Realizzano gare d’appalto per comprare circa l’80 per cento dei farmaci ma solo il 30 per cento dei dispositivi medici (cioè peacemaker, stent, siringhe, garze, tamponi, strumentazione chirurgica, cateteri, pannoloni, eccetera eccetera).

Ed è proprio in questa seconda voce di spesa che si annidano tantissimi sprechi. Dove manca il contratto centralizzato i costi lievitano (questo vale anche per i farmaci, quelli che gli ospedali comprano in autonomia perché non sono compresi nell’elenco). È vero, l’Anac (l’Autorità anticorruzione) ha stilato un listino prezzi di riferimento dei principi attivi e dispositivi ma solo per quelli di maggiore impatto sulla spesa sanitaria complessiva. Morale: gli ospedali, anche all’interno della stessa regione, continuano a pagare gli stessi prodotti a prezzi diversi. Che poi sappiamo come funzionano queste cose, c’è la ditta amica che fa pressione e l’ospedale anziché comprare la stessa merce da un altro produttore a una cifra più bassa, la compra da questa pagando di più.

Un cortocircuito fuori controllo. Che il commissario alla spending review Yoram Gutgeld ha ben presente tanto che lo scorso aprile ha fin detto queste cose: “Entro settembre ci sarà una centrale unica d’acquisto unica in ogni regione. Ci sono ancora casi in cui lo stesso prodotto viene comprato da due ospedali nella stessa regione a un prezzo diverso e abbiamo alcuni ospedali pubblici che perdono decine di milioni l’anno. L’obiettivo è quello di rendere la sanità più efficiente, eliminare gli sprechi e trovare opportunità per offrire servizi migliori soprattutto in alcune regioni”.

Il direttore di Agenas (l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali che dà supporto tecnico alle attività del ministero della Salute), Francesco Bevere il 25 giugno a Montecitorio ha sollevato un’altra questione: l’incapacità degli addetti ai lavori. “Efficienza e trasparenza nel settore sanitario – ha detto – dipendono anche dalla specificità professionale degli economi e dei provveditori. Abbiamo trascurato per troppo tempo questa evidenza, alimentando così forti elementi di criticità, sia per quanto riguarda l’appropriatezza negli approvvigionamenti, sia per quanto riguarda il verificarsi di fenomeni corruttivi che interessano il settore e, in particolare, gli acquisti in sanità”. Per questo motivo Agenas e Fare (la Federazione delle associazioni regionali economi e provveditori della sanità) stanno organizzando dei percorsi formativi specifici. Perché i farmacisti, che fanno parte della commissione per la gara d’appalto e che negli ospedali fanno gli ordini alle case farmaceutiche, non hanno studiato per fare gli economisti. Pensate che un primario di cardiologia mi ha raccontato di aver consultato un professore di economia della Bocconi per avere due dritte su come ottimizzare le spese nel suo reparto. Ma mica sono tutti accorti come lui.

Allora perché non fare una centrale d’acquisto unica nazionale (così la siringa o le pulizie hanno lo stesso prezzo a Napoli e a Bologna)? Impossibile, scordatevela. Significa, mi ha spiegato la presidente di Fare, togliere dal mercato la miriade di aziende che producono tutta quella roba lì, che farebbero ricorso e rallenterebbero, fino a bloccarli, i contratti. E se alla fine rimangono una ditta impone il prezzo più alto. Questa è la legge del mercato. Quindi in una regione vince l’appalto una ditta low cost, in un’altra quella branded, per dare il pane a tutte.

Alla domanda dove si annidano molti degli sprechi in sanità la risposta è qui: nei costi un po’ troppo arbitrari dei dispositivi medici.  Ai primi posti, certo, ci sono la corruzione, gli appalti pilotati, il comparaggio. La fondazione Gimbe ha quantificato 25 miliardi di sprechi (il 23 per cento della spesa totale) nella sanità italiana nel 2014 (erano 23 miliardi nel 2013 secondo l’analisi Ispe-sanità). Di questi circa 7,6 sono stati usati per interventi sanitari inefficaci; 5 hanno alimentato frodi e abusi, e 4 l’acquisto di strumenti e farmaci a prezzi eccessivi.

Nota grave finale. La politica sanitaria, che assorbe il 75 per cento del bilancio regionale, per tradizione si gioca a cavallo di luglio e agosto, nel cuore dell’estate, quando siete con le infradito sulla sabbia o state raggiungendo un rifugio in alta quota o siete in aereo per la Thailandia. Perché d’estate le mazzate risultano più soft.