Vorrei fare alcune considerazioni sul radicalismo che caratterizza i percorsi di vita di alcuni musulmani, tenendo ben presente che questo problema non riguarda solo l’Islam, ma anche altre ideologie, siano esse di matrice religiosa o laica.

Di prima importanza appare lo sforzo di gettare uno sguardo su alcuni luoghi che fungono da palcoscenico ai percorsi di radicalizzazione. Quindi tranquilli, non si tratta di un manuale per diventare jihadisti, ma piuttosto una prima riflessione, altre ne seguiranno, sulle condizioni che favoriscono una scelta di vita radicale.

Sherif Kouachi era stato in prigione in Francia, a Fleury-Mérogis. Lì aveva incontrato il terrorista Djamel Begal, famoso perché considerato un fine conoscitore del Corano, e perché vantava un suo soggiorno in Afganistan nel 2000. Begal scontava una pena di dieci anni perché implicato in un progetto di attentato contro l’ambasciata americana a Parigi. In questo carcere c’era anche Amedy Coulibaly: tutti elementi di cronaca che ci permettono di individuare il ruolo che le carceri hanno per l’indottrinamento dei detenuti all’islam radicale. Le condizioni carcerarie sono il substrato ideale per coltivare un profondo risentimento contro la società e favorire le fughe in avanti verso una religione che appare, grazie ad un totalitarismo fideistico, l’unica via d’uscita alla condizione in cui vivono. Mi sembra quindi alquanto bizzarra l’idea circolata in Francia dopo i fatti di Parigi, di mettere insieme, in ali specifiche delle prigioni, i detenuti musulmani radicalizzati. Come se noi in Italia mettessimo insieme nello stesso carcere tutti i mafiosi con qualche apprendista candidato diventare a sua volta mafioso.

Ma di che cosa parlano questi detenuti? Quali gli stati d’animo? Come si forma giorno dopo giorno il convincimento che la sola cosa che conta è vivere in modo assoluto la fede verso Dio a costo della propria vita? “Non siate preoccupati – dice ai suoi genitori un futuro combattente che si è unito all’Isis – preferisco vivere in un paese retto dalla sharia e non in uno le cui leggi sono fatte dagli uomini” (Le Monde 25 aprile 2015).

Vi sono ormai un certo numero di ricerche che gettano una luce sui percorsi di vita dei detenuti musulmani. Essi lambiscono la follia, è difficile decifrare razionalmente il loro percorso. Un elemento caratteristico è la loro percezione di sentirsi rifiutati dalla società che li circonda, di essere confinati ai margini nelle periferie ghetto delle grandi città e di non avere le stesse possibilità di riuscita sociale di altri cittadini. E in quanto musulmani, sentono il disprezzo che li circonda, e sanno che l’Islam viene percepito dall’opinione pubblica come una religione del terrore. Un sentimento generalizzato dopo l’11 settembre, e che oggi l’Isis, nella sua raffinata programmazione comunicativa, fa di tutto per esacerbare. Immagino i discorsi tra Sherif Kouachi, Coulibaly e Begal sulla corruzione dei costumi in Occidente, sull’abiezione della vita sessuale e il degrado della famiglia. Non saranno mancati i riferimenti ad una età d’oro dell’Islam e alla necessità di combattere contro i miscredenti per restaurarla. Poi pregare cinque volte al giorno e parlare, parlare sino a far diventare la parola esaltazione, convincimento di essere diversi perché a differenza degli altri, gli occidentali, non si è attraversati dal dubbio.

Né la morte pone alcun problema, anzi: quando avviene per la causa giusta, essa diventa una forza per il suo significato salvifico. E quale miglior causa che morire per la gloria di Allah? Poi il paradiso nel quale scorrono per l’eternità fiumi di latte e miele e si offrono settanta vergini. Nel convincimento della differenza e nella percezione dell’ingiustizia subita – molto spesso reale – si fa strada l’odio e la voglia di vendetta. Immagino che doveva essere il sentimento dominante dei fratelli Kouachi e di Coulibaly mentre compivano la strage, né diversi dovevano essere i sentimenti di Jihadi John quando sgozzava i suoi connazionali. Una vendetta verso l’Occidente impersonato da quei servizi segreti britannici che prima avevano cercato di arruolarlo come infiltrato e poi gli hanno impedito di andare in Kuwait per lavorare e sposarsi, come afferma l’associazione Cage?

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