giannini-renziMa il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini può restare al suo posto? L’ex rettore di una università per stranieri ed esponente di un partito che non esiste più, è uscita indenne dal disastro dei test di ingresso scambiati: tutta la colpa è caduta sul consorzio interuniversitario Cineca, che ha invertito le prove nazionali di ammissione per le specialità di Area medica e Servizi clinici. Il Ministero ha annullato le prove. Va bene, facciamo finta di credere che una selezione gestita dal Ministero dell’Istruzione non sia responsabilità del ministro.

Ma c’è un’altra vicenda che è tutta colpa della Giannini, un caso incredibile rivelato dal Corriere della Sera di oggi in un articolo di Orsola Riva. Qui la responsabilità è tutta, ma proprio tutta del ministro che ha fatto una scelta dall’impatto simbolico e politico evidente.

Ecco la storia: l’8 aprile scorso ci sono i test di ammissione alla facoltà di Medicina. In base alle nuove regole vengono fatti su base nazionale come un concorso pubblico, tipo quello per i magistrati: i migliori, quelli con un punteggio più alto, avranno diritto a scegliersi per primi la sede universitaria, la più prestigiosa o quella più vicina a casa, a seconda delle preferenze. Visto che siamo in Italia, si consuma la classica ordalia di copiature, manomissioni, copiature, compiti molto meno anonimi del dovuto, e così via. Finisce con un ricorso al Tar, il tribunale amministrativo regionale che troppo spesso ha l’ultima parola su tutto, dalle elezioni agli appalti fino, appunto, ai test universitari. I 5000 esclusi dal test di medicina che hanno fatto ricorso vengono ammessi (che se ne fanno di un’ammissione a metà dell’anno? Mistero, ma meglio di niente).

A settembre il Ministero fissa i criteri: i ricorrenti possono iscriversi ma soltanto alla facoltà a cui il loro (basso) punteggio li rendeva meno distanti: ogni candidato aveva una classifica di sedi, i bocciati in pratica non potevano frequentare gli atenei più ambiti tipo Torino, ma soltanto a quelle di mezza classifica. Il 9 ottobre il colpo di scena: nuova circolare della Giannini, i bocciati possono andare dove vogliono, cioè nell’ateneo che era la loro prima scelta. Come se fossero stati bravissimi.

Immaginate uno studente bravo ma non tra i migliori che voleva tanto andare a Torino ma si è dovuto accontentare di Parma. O uno di Modena che, invece di poter studiare in una buona università sotto casa, è costretto dal suo punteggio a pagarsi un affitto a Piacenza. Se avessero fatto punteggi più bassi e si fossero fatti bocciare oggi, grazie al Tar, avrebbero diritto a un posto nell’università che ambivano a frequentare.

Con questa decisione il ministro Giannini conferma alcuni concetti utili da tenere a mente.
Primo: in Italia la meritocrazia non esiste. Secondo: studiare è una scelta da sfigati. Terzo: inutile illudersi di poter introdurre trasparenza nelle selezioni della classe dirigente, meglio sperare che le baronie locali riescano a selezionare candidati non soltanto fedeli ma anche svegli. Quarto: il numero chiuso all’università pare proprio essere estraneo al Dna italico.

La verità è che in questo Paese siamo avversi a ogni processo di selezione. Perché a noi piace essere cooptati, non battere gli altri in quanto migliori.

Il ministro Stefania Giannini ha almeno il merito di aver chiarito che questa è anche la visione del Ministero e dunque del governo renziano (che, in effetti, ha spesso premiato più il grado di renzismo che quello di competenza). D’altra parte era forse difficile aspettarsi qualcosa di diverso da un ministro che non ha percepito l’esigenza di dimettersi dopo che il suo partito Scelta Civica (di cui si è fatta anche nominare segretario per mancanza di alternative e contro il parere di diversi esponenti) ha preso lo 0,71 per cento, con 196.157 voti, con la lista Scelta Europea.

Se il premier Matteo Renzi vuole ancora essere credibile quando nei suoi prossimi discorsi pronuncerà la parola “meritocrazia” ha due alternative: o costringe la Giannini a cambiare la circolare sui test di medicina, o la costringe a cambiare lavoro.

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