Oltre 10 miliardi di perdite in quattro anni. E’ questo, per ammissione dell’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, il risultato messo a segno tra 2009 e 2013 dal settore gas, da quello della raffinazione e dalla chimica. Il primo ha registrato un rosso di 2,2 miliardi, il secondo (da cui il Cane a sei zampe sta progressivamente uscendo o convertendo gli impianti) ne ha persi 6 e la chimica 2,3. Il numero uno del gruppo petrolifero controllato al 30% da Tesoro e Cassa depositi e prestiti lo ha detto in audizione in commissione Industria al Senato. Specificando tra l’altro che la perdita nei tre settori è strutturale. Insomma: la crisi finanziaria e la congiuntura negativa non c’entrano. Si tratta di business che sono e resteranno in perdita a causa di cambiamenti economici di lungo periodo. La parte esplorazione e produzione di idrocarburi ha mantenuto invece 71 miliardi di risultato operativo positivo e “tra 2008 e 2013 ha scoperto risorse per 9,5 miliardi di barili equivalenti”, 2,5 volte la produzione. Ma qualche scricchiolio arriva anche da quel fronte: a livello mondiale, infatti, “si è arrivati a perdere 3,3 milioni di barili al giorno per cause geopolitiche”.

Come conseguenza, ha detto il manager indagato per corruzione internazionale nell’inchiesta sul pagamento di presunte tangenti in Nigeria, “abbiamo dovuto cambiare la strategia”. L’azienda “va bene ma non abbiamo più lo zoccolo duro di un business che dà cash flow (flussi di cassa positivi, ndr). Bisogna avere una cassa più robusta”, ha aggiunto Descalzi. Per questo gli obiettivi per il prossimo biennio sono di “portare a pareggio i business che hanno perso” e “trasformare la chimica”. Ma nel frattempo, ha spiegato l’ad, “ho dovuto ridurre i costi“. E “entro fine anno puntiamo a ridurre leggermente il debito sotto i 15 miliardi”, dai 15,4 iscritti nel bilancio 2013.

Il manager ha anche parlato del progetto di costruzione del gasdotto South Stream, confermando le ipotesi delle scorse settimane su un possibile disimpegno di San Donato Milanese dalla partita che lo vede socio con il 20% al fianco di Gazprom (50%), della tedesca Wintershall Holding e della francese Edf (entrambe con una quota del 15%). L’obiettivo di Eni, ha detto Descalzi, “è di mantenere l’impegno budgetario sui 600 milioni di euro“, come stabilito dal progetto originario che prevedeva “il 70% dei fondi a debito e il 30% equity”, cioè soldi messi dai soci. Ma “con i problemi tra Russia e Ucraina si sta facendo fatica a trovare i finanziamenti”. E il costo complessivo è stato rivisto al rialzo. In questo quadro, “l’esposizione” del Cane a sei zampe “sarebbe di 2,4 miliardi”. Troppo, per il gruppo. “Abbiamo l’opportunità contrattuale di poter uscire e la valuteremo”, ha aggiunto Descalzi, ma “se dovessimo uscire il South Stream si farà anche senza Eni”, ha concluso l’ad. “E non ci saranno problemi per Saipem, che ha un contratto solido, difficile da rimpiazzare e sta lavorando”. Saipem, la controllata di Eni che realizza infrastrutture per l’industria petrolifera, si è aggiudicata infatti dal consorzio per il South Stream due contratti del valore rispettivamente di 2 miliardi e 400 milioni di euro.

Descalzi ha poi negato che siano in corso colloqui con i russi di Rosneft, che di recente hanno fatto sapere di essere interessati ad acquisire quote della controllata. “Non c’è discussione con Rosneft”, ha affermato l’ad. Quanto alle altre opzioni sul tavolo per Saipem, che per Eni è ormai una società non strategica, “non posso dire molto di più di quello che ho detto a fine luglio. Abbiamo iniziato un processo di vendita, non vogliamo fare uno spezzatino o vendere a casaccio”.

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