Dopo anni di mugugni, con le elezioni europee i partiti sono costretti a prendere una posizione esplicita sull’Europa e la gestione della crisi. La Lega ha scelto la campagna contro l’euro “arma di distruzione di massa”. Silvio Berlusconi attacca Angela Merkel (legittimo, ma il grosso dei danni sono avvenuti quando il Cavaliere era premier e ai Consigli europei era così poco considerato che neppure otteneva la parola). Le due novità sono Matteo Renzi e Beppe Grillo.

I “7 punti sull’Europa” hanno deluso chi si aspettava una proposta articolata dai Cinque Stelle, che in questi mesi hanno flirtato con la pattuglia di battaglieri teorici dell’uscita dall’euro: quattro punti del M5S sono semplicemente non applicabili (il referendum per rimanere nell’euro non è costituzionale, il Fiscal compact non si può abolire perché è un trattato internazionale e ogni Stato decide da sé, il pareggio di bilancio è appena entrato nella Costituzione e non si vedono maggioranze per abolirlo, gli eurobond sono stati abbandonati perfino dalla Francia), gli altri sono vaghi e poco rilevanti, dall’alleanza tra Paesi mediterranei alle spese per ricerca e innovazione fuori dal vincolo del deficit (in parte si può già fare), misteriosi i finanziamenti per agricoltura e allevamento “finalizzati ai consumi interni”.

Renzi ha scelto l’unica strada percorribile e, in un’intervista al Fatto, ha detto che se facciamo le riforme e cambiamo il mercato del lavoro possiamo sforare il 3%, limite al rapporto tra deficit e Pil. L’approccio ha un senso: per l’Italia i parametri di bilancio sono sempre stati lo strumento che aveva l’Europa per verificare il nostro comportamento, visto che i governi cambiano troppo in fretta e alle loro promesse non crede nessuno. Renzi è il primo leader (eccetto il Berlusconi del 2008) che si muove forte di un reale consenso popolare. Mario Monti ed Enrico Letta hanno trovato la propria legittimità nel rispetto degli impegni con Bruxelles, il segretario del Pd la prende dai voti e può permettersi scelte a loro precluse.

Visto che i trattati che fissano il limite del 3 per cento non si possono modificare, è comprensibile l’idea di sforare, tornando sotto procedura d’infrazione. La domanda a cui Renzi deve ancora rispondere, però, è: sforare per fare cosa? Per finanziare la spesa corrente, assumere precari della Pubblica amministrazione, finanziare qualche grande opera inutile? O sforare per ripristinare un po’ di spesa per investimenti? O per tagliare le tasse ai redditi bassi sperando nella domanda interna? O magari per pagare ammortizzatori sociali inefficienti così da rimandarne ancora la riforma? La proposta di Renzi è più concreta di quelle di Grillo, ma in assenza di dettagli si riduce a slogan elettorale.

Il Fatto Quotidiano, 8 gennaio 2014

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