La frattura tra il sindaco di Milano Giuliano Pisapia e il capodelegazione del Pd in giunta, Stefano Boeri, è formalmente ricomposta. Pisapia ha restituito a Boeri le deleghe alla cultura, moda e design (non quella all’Expo) e l’assessore ha ripreso il suo posto. Tutto bene quel che finisce bene? Si è evitato, per ora, il naufragio del sogno arcobaleno. Ma alcune domande restano ancora senza risposta. Proviamo ad allinearle.
1. “Non è mai stato un problema né politico né di contenuti”, garantisce l’uomo forte della giunta Pisapia, l’assessore al commercio Franco D’Alfonso, “Boeri in più occasioni non è stato rispettoso del metodo di lavoro che ci siamo dati”. Non contrasti politici, dunque, ma uno stile di lavoro “da solista” da parte di Boeri, che avrebbe leso la collegialità. Lo stesso Boeri accredita questa versione, nella sua intervista a Repubblica (pagine milanesi) di martedì.
Se è così, allora abbiamo assistito a una tempesta in un bicchier d’acqua, a un terremoto politico causato soltanto dal cattivo carattere o dall’egocentrismo di un assessore finito in politica. Un contrasto tra Buddenbrook e Celentano. Eppure nei giorni caldi delle “cinque giornate di Milano” non si era detto proprio il contrario, e cioè che i contrasti erano su visioni diverse a proposito di questioni cruciali per il futuro della città? E allora quell’intervista che cos’era, una sorta di (obbligata) autocritica stile rivoluzione culturale cinese?
2. I contrasti sull’Expo, per esempio: solo questione di “stili di lavoro”? Se è così, perché la delega sull’evento, e solo quella, non è stata restituita a Boeri? Ci era parso di capire che su questo argomento le differenze di visione erano (e restano) piuttosto nette: da una parte il progetto iniziale dell’“orto planetario” da lasciare alla città anche dopo il 2015, dall’altra l’operazione immobiliare imposta da Roberto Formigoni per “valorizzare” (con 750 mila metri quadri di cemento) le aree della Fondazione Fiera su cui sorgerà l’Expo, diventato un’occasione per trasformare aree agricole in aree edificabili.
3. E le altre questioni sul tappeto? Sì o no al museo di Libeskind? Uno o due bandi per vendere le azioni di Sea e Serravalle? È inessenziale o una discriminante per chi pretende trasparenza e massima valorizzazione del patrimonio comunale?
4. Da che parte sta il Pd, in questa storia? O meglio: quanti Pd ci sono a Milano? Nelle “cinque giornate”, le prime tre hanno visto un partito (il segretario cittadino Roberto Cornelli, la capogruppo in consiglio Carmela Rozza…) quasi contento di togliersi di mezzo il “problema Boeri” e liquidare un ufo estraneo all’apparato che scompagina i giochi interni e “salta la fila” per la leadership. È un partito che ha scambiato il buon esito elettorale per un premio alla carriera, mentre era una scommessa sul futuro, che tanti milanesi hanno fatto anche grazie alla faccia di Boeri, “nativo democratico”, che ha fatto dimenticare il Pd di Penati & apparati.
Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2011
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