Le risate di Sarkozy e Merkel sul nostro primo ministro hanno suscitato in Italia l’ennesima disputa sul presunto antipatriottismo di chi se ne è compiaciuto. Per molti uomini politici del centro-destra, qui è l’orgoglio nazionale a essere infangato. Il vero patriota dunque si scandalizza davanti a tanto vilipendio e non esita a scendere in campo per lavare con altrettanti insulti l’ignobile affronto straniero.

A conclusione del 150° anniversario dell’unità d’Italia, il tanto usurpato concetto di patriottismo merita forse una riflessione in più. Patriottismo è amor di patria. Ma che cosa vuol dire esattamente amare la patria? E che cosa s’intende per patria?

Massimo Rosati, nel suo saggio Il patriottismo italiano scrive: «Per difendere la tesi del patriottismo come virtù nelle democrazie contemporanee, sembra (…) necessario un passo in avanti (…) che consiste nello sganciare concettualmente il patriottismo dal riferimento obbligato alla realtà rivolta allo stato nazionale. Un passo che ci viene reso possibile dal riferimento al nesso tra patriottismo e autogoverno proprio della tradizione politica repubblicana».

In altre parole, Rosati intende dire che il patriottismo non è una lealtà rivolta a un solo stato nazionale, ma a una serie di principi che garantiscono l’autogoverno. L’autogoverno è essere soggetti soltanto alla propria volontà, quello che scaturisce dalla decisione comune di rimettersi a un potere legittimo, governato dalla giustizia, che vincoli tutti allo stesso modo.

Prosegue ancora Rosati: «Il nesso tra patriottismo e autogoverno è di particolare rilevanza, in quanto concettualmente sgancia il patriottismo dal riferimento al solo stato-nazione come comunità politica di riferimento. La tradizione di pensiero politico repubblicana ci consente di guardare al patriottismo come a una virtù che insegna il valore dell’autogoverno, quale che sia la comunità politica a cui apparteniamo (stato-nazione o comunità sovranazionali, come anche comunità locali)».

Il vero patriota dunque non difende una patria a priori che gli è stata imposta o che ha ereditato, ma la patria con cui egli costantemente rinnova il contratto dell’autogoverno, cioè della giustizia, della libertà politica e civile. Il patriottismo è una virtù al servizio del bene comune, essenziale per conservare in una società lo stato di diritto. Quando una patria diventa iniqua, il patriota ha il dovere di combatterla.

Scriveva Machiavelli: «Io stimerò sempre poco vivere in una città dove possino meno le leggi che gli uomini: perché quella patria è desiderabile nella quale le sustanze e gli amici si possano sicuramente godere, non quella dove ti possino essere quelle tolte facilmente, e gli amici per paura di loro proprii nelle tue maggiori necessità t’abbandonino».

Scrive ancora Rosati: «Senza patriottismo insomma, una collettività cederà lo scettro dell’autogoverno a un qualche potere arbitrario, interno o esterno, intento non a far valere quello che gli autori repubblicani chiamavano il bene comune, ma meri interessi particolari. (…) Il patriota dunque è un critico della sua società, ma un critico che sa bilanciare senso di appartenenza e distacco».

E qui arriviamo al caso Italia. Oggi è più patriottico criticare l’Italia per il suo immobilismo, per la sua incapacità di prendere decisioni necessarie, per la sua inefficienza economica, per l’ingiustizia sociale dilagante e per l’inadeguatezza delle sue infrastrutture o è più patriottico difenderla a tutti i costi e restare uniti davanti agli attacchi stranieri? Per trovare la risposta basta andare a cercare dove è finito in questo garbuglio il nostro autogoverno. Chi ci garantisce libertà individuali e civili, stato di diritto, pari trattamento e giustizia? Certamente non più il nostro stato nazionale, che è incapace di portarci fuori da questa crisi e quindi di provvedere un contesto in cui l’autogoverno possa essere esercitato. E’ solo dentro le regole dell’Unione europea che noi possiamo conservare le nostre libertà e non diventare schiavi dell’arbitrario. È l’Unione europea oggi che ci garantisce una via d’uscita dalla crisi, che paga l’interesse sul nostro debito, che imponendoci le sue misure ci salva da noi stessi.

Scriveva Ernest Renan nel 1882: «L’esistenza della nazione è un quotidiano plebiscito, esattamente come la vita dell’individuo è una costante affermazione di adesione alla vita. Le nazioni non sono eterne. Hanno avuto un inizio e avranno una fine. Saranno probabilmente sostituite da una confederazione europea».

A leggere queste parole capiamo che la nazione italiana oggi volge al suo termine, almeno come l’abbiamo conosciuta finora, perché il nostro interesse di italiani non è più difeso dal nostro stato. Serve un altro contratto di autogoverno, un’altra patria, un altro sistema di lealtà.

Di fatto, ancora oggi in Italia due opposte concezioni si contendono l’idea di patria e nazione. Una democratica e repubblicana che vede nella patria il luogo dove possono compiersi i valori di democrazia e autodeterminazione sulla base dello stato di diritto a prescindere dalle singole nazioni e in una costante dialettica sociale. L’altra nazionalista e totalitarista che alla lealtà a una cultura omogenea e particolare, sovrappone l’esclusione della diversità e la negazione di ogni conflitto sociale. In altri termini, l’una ispirata alla Resistenza come riscatto nazionale e recupero del Risorgimento in termini antinazionalisti, l’altra ispirata al nazionalfascismo che considera l’8 settembre un tradimento e la Resistenza un movimento di parte.

Per l’una, essere patrioti significa essere anche anti-italiani quando patria e diritto non coincidono più. Per gli altri il patriota deve affondare assieme alla nave senza mai lasciare il suo posto.

Allora non esitiamo e uniamoci alla corale risata di Sarkozy e Merkel. Una risata che seppellendoci ci salverà.

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