Forse i “moderati” sono una cosa del genere dei fondamentalisti islamici: fanno, dichiarano, dicono, sono al centro del mondo (sui giornali) ma poi, al momento del dunque, sono una minoranza non rilevante. L’Italia non si divide infatti, a quanto risulta, semplicemente fra santanchisti e gente normale: questi ultimi, a quanto pare, sono la maggioranza. E finalmente.

La gente normale, in Italia, ha sempre avuto etichette un po’ stralunate: comunisti, radicali, estremisti e chi più che ha più ne metta (io personalmente a sedici anni ero comunista perchè mi sembrava strano che i braccianti, giù da noi, dovessero dormire sui cannicci per terra). Ma era solo un modo di chiamare (un po’ perché les bourgeois si spaventavano, un po’ perché noi ci divertivamo molto a spaventarli) le cose che nel resto d’Europa erano normali.

La tv serve principalmente a far sì che la gente normale e le cose normali appaiano strane, e normale invece il pazzo che si crede Napoleone. L’Italia è l’unico paese al mondo dove la tivvù sia andata al governo, e ci sia rimasta per vent’anni.Questo spiega perché, ai congressi internazionali di psichiatria, ci sia sempre qualcuno che, con gravità professorale, dice cose spiacevoli su noi italiani. Al prossimo congresso, speriamo adesso, il suo intervento sarà più breve, anche se ci vorrà molto tempo prima che venga abolito del tutto.

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La sinistra che vince – perché è la sinistra che ha vinto, non c’è il minimo dubbio: il terzo polo è trascurabile e Fini un bluff – è una cosa stranissima, a osservarla da fuori. Vendola, De Magistris, i grillini, la parte “buona” (Bersani) del Pd vengono da storie diversissime, e si stupirebbero molto se qualcuno gli dicesse che in fondo sono facce diverse della stessa cosa. La “cosa” è la crisi della vecchia sinistra e la travagliatissima formazione di quella nuova.

Il qualunquismo rivoltoso dei grillini, il culto della personalità dei vendoliani, la rudimentalità dei dipietristi, la goffaggine dei “sinistri federati”, l’ambiguità programmatica di Bersani, non sono dati politici, sono semplicemente gli annaspamenti di gente che vorrebbe nuotare, ma non si decide a staccare i piedi dal fondo. La storia vecchia è finita, la nuova ognuno s’illude di trovarla da solo. Non c’è ancora esperienza di storie collettive; l’unica cognizione comune (ma è già moltissimo, qui e ora) è che bisogna muoversi, che il tempo dell’impotenza è finito.

In questo c’è molto Ottocento, prima dei socialisti. Sette, partiti, gruppi, ribellioni con troppe “linee politiche” o nessuna. L’unica cosa comune (ma non percepita) era – banalmente – l’età. “Non prenderemo nessuno – disse uno di loro – che abbia più di quarant’anni”. A partire da questo, si potè andare avanti.

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E anche adesso è così. Non per la sciocchezza del sindaco giovane o del candidato ventenne (Renzi, politicamente, è tanto anziano quanto Emilio Fede o la Santanché) ma perché è il collante di tutto, ed è profondo.

Il grillino di Bologna, il giovane Pd di Trento o Genova, il rifondarolo di Catania, l’attivista elettorale di Pisapia e quello di De Magistris hanno in comune questo, al di là delle (poche) cose mature che dicono e delle (molte) ca…te che li impacciano: essi sono una generazione. Se riusciranno a riconoscersi, a esprimere un “partito” nei prossimi due o tre anni, l’Italia sarà salva. Altrimenti resterà il rimpianto.

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L’Italia, in questi vent’anni, è stata attraversata da due cose. La prima, la ristrutturazione del sistema economico da industriale a finanziario. La seconda, il passaggio da patologia a fisiologia delle sue componenti mafiose. Le due cose hanno relazione fra loro. Hanno prodotto, fra l’altro, la “seconda repubblica” (in mano non ai politici, ma agli imprenditori), la fine del lavoro (sostituito dal precariato), l’eliminazione della proprietà pubblica (privatizzato tutto, fino alla scuola), l’uscita dall’Occidente (Libia, Russia) e ovviamente da Keynes.

Il punto in cui tutte queste cose s’intersecano, quello su cui bisogna avere le idee chiare e chieder conto, è la Fiat. Che cosa ne pensa Beppe Grillo (e il suo – non innocente – cervello politico, Casaleggio Associati) dell’abolizione del sindacato? E Bersani (e i giovani di Bersani) da che parte starà, prima o poi, con la Cgil o con Fassino?

Nella città precaria che è Napoli, De Magistris cercherà alleati a Torino o si barricherà là dentro? Vendola impernierà la sua strategia sugli operai o continuerà a farne solo un caso umano? I “comunisti” riusciranno a ri-percepire la lotta di classe, a capire che la falcemartello, per gli edili di Roma (che sono quasi tutti rumeni) era il simbolo sul berretto dei poliziotti rumeni?

Da queste domande dipende tutto. Non dalle risposte che verranno date (saranno, di necessità, ambigue e lente) ma da chi le farà. Se le faranno i giovani, e in concordanza fra loro, trasversalmente, allora il “partito” loro nascerà bene. Tutti i “partiti” storici – che solo raramente hanno un nome – nascono infatti molto più dalle buone domande che dalle risposte.

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Cos’abbiamo in comune, oltre a Berlusconi? Che cosa tutti noi abbiamo fatto, nei momenti migliori, senza sostanziali differenze? Che cosa potrebbe unirci, noi della nuova repubblica, come nella prima ci unì la Resistenza antifascista e il suo ricordo? Risposta: l’antimafia. E’ il movimento antimafia il filo rosso, comune a tutti noi, di questi due decenni. Fra ingenuità, goffaggini, e anche qualche salotto e qualche arroganza (ma anche l’antifascismo repubblicano ne ebbe) esso è nel suo complesso una storia giovane, sana nei suoi fondamenti e persino nei suoi errori.

Bisogna votare subito. La Santanchè e la Lega sono minoritari nel Paese. Vincere i referendum, e poi da Napolitano a chiedere elezioni. Bisogna votare uniti. Al referendum è facile. Anche le elezioni politiche, dobbiamo trasformarle in referendum. Una lista unitaria, antimafia e antiprecariato, con un candidato unico di immenso prestigio e chiarezza, un Pertini.

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