Ci sono 600 morti, un processo finito in prescrizione, un altro in corso e un filone d’indagine in fase istruttoria. C’è da una parte la richiesta di giustizia dei servitori dello Stato ammalati o morti – e il conteggio è ancora aperto, in attesa del picco previsto nel 2020 – e dall’altra tre ministri della Difesa che negli ultimi sei anni hanno raccontato mezze verità, fornito dati generici e mai chiarito totalmente la vicenda.

Più morti che in guerra, ma i ministri tacciono – Da Ignazio La Russa fino a Roberta Pinotti, passando per Giampaolo Di Paola, nessuno ha spiegato nei dettagli al Parlamento dell’amianto a bordo delle navi militari italiane e del suo lento smaltimento, nonostante la tossicità della fibra fosse nota alla Marina dal 1967 e il minerale al bando dal 1992. E mentre i ministri si nascondono dietro verità di facciata, gli ammiragli imputati nei processi continuano a non mettere piede in aula. Come se questa ‘battaglia’ costata all’Italia, stando all’ipotesi della procura di Padova, un numero di morti maggiore di quanti se ne sia effettivamente contati in scenari di guerra negli ultimi 22 anni, non esistesse.

Il libro-inchiesta – A riportarla a galla sono stati i giornalisti Lino Lava e Giuseppe Pietrobelli, collaboratore de ilfattoquotidiano.it, con il libro-inchiesta Navi di amianto (Oltre edizioni, 247 pagine, 16 euro) nel quale ricostruiscono ritardi e silenzi della Marina militare di fronte a quelle morti bianche senza giustizia, negata perfino dall’Inps che si rifiuta di riconoscere i risarcimenti a chi si è ammalato dal 1995 in poi o non lavorava sotto coperta.

Il silenzio dello Stato – Mentre lo Stato per 13 anni si è barcamenato pigramente e burocraticamente, lasciando che le navi contaminate continuassero a navigare come svela una mappatura del Registro navale italiano del 2008, pubblicata per la prima volta nel libro. Basti pensare che la prima dichiarazione ufficiale risale al 2011 ed è dell’allora ministro La Russa: il silenzio di Stato viene rotto grazie a due interrogazioni parlamentari, rispondendo alle quali il titolare della Difesa fornisce una spiegazione vaga e incompleta, senza dati verificabili. Non si sa quanto amianto sia già stato rimosso né quali siano i costi o i tempi per la bonifica totale della flotta.

I primi numeri di Di Paola – Un anno più tardi, tocca a Di Paola rispondere al Parlamento, pungolato dai Radicali. Si scopre così che solo il 20% delle unità navali era stato completamente bonificato e l’amianto era stato rimosso parzialmente dal 44% delle 155 corvette, fregate e cacciatorpedinieri con la fibra killer a bordo. Nel 2012, quindi, otto navi su dieci avevano ancora la fibra a bordo. Numeri che nei mesi successivi si assottiglieranno rapidamente, facendo arrabbiare l’Associazione famiglie esposti amianto che criticherà duramente il balletto di dati. Senza tra l’altro che il ministro si sia preoccupato di indicare quali fossero le navi decontaminate e quali quelle in attesa di interventi. Tutto top secret. L’unico dettaglio aggiunto da Di Paola è che “l’amianto, ove presente, risulta adeguatamente confinato e incapsulato”. Non una parola sugli appalti né sui ritardi ventennali che caratterizzano la bonifica, divenuta più rapida solo dopo la prima inchiesta nata a Padova.

Le non verità della Pinotti – La chiarezza non ha contraddistinto neanche Roberta Pinotti, chiamata a rispondere come altri ministri, da Luigi Di Maio e altri parlamentari del Movimento 5 Stelle. La litania è sempre la stessa: “La Marina non ha più impiegato materiali contenenti amianto e, dal 1992, tutte le unità navali sono state costruite e messe in servizio con la certificazione amianto free”. Un’affermazione che in “Navi di amianto”, viene definita “non vera, smentita dalle carte dell’inchiesta e da decine di testimonianze”. Alla stessa conclusione arriva Di Maio, che ne chiede conto alla Pinotti in una nuova interrogazione. È in attesa di risposta dal settembre 2015 nonostante sette solleciti formali. Sono intanto passati 13 anni da quando l’ex sottufficiale Giovanni Baglivo, per la prima volta, iniziò a raccontare davanti a un registratore tascabile di un ufficiale della polizia giudiziaria le condizioni di lavoro nelle navi e i rischi per i militari, inconsapevoli protagonisti di questa storia di silenzi, omissioni e mezze verità. Ecco il suo racconto, tratto dal primo capitolo di Navi di amianto.

L’ESTRATTO DEL LIBRO NAVI D’AMIANTO DI L. LAVA E G. PIETROBELLI

Il destino ormai quasi compiuto è, invece, il letto d’ospedale dove giace l’ex sottufficiale Giovanni Baglivo, tecnico di macchina e meccanico di macchina a vapore sulle navi della Marina Militare. È il 5 agosto 2004, da appena una settimana è stato operato per mesotelioma pleurico, un male che non lascia scampo. Il registratore tascabile Olimpus Pearlcorder L200, in dotazione alla Procura della Repubblica di Padova, è acceso sul comodino. Fatica a respirare e a parlare, il militare pugliese di Tricase venuto a curarsi in Veneto, dove gli hanno tolto una parte del polmone destro. Sopravviverà soltanto fino al 4 settembre 2005. «Sembrava un condannato a morte» ricorda, molti anni dopo, Omero Negrisolo, uno degli ufficiali di polizia giudiziaria che ne hanno ascoltato il drammatico racconto. È il primo marinaio ammalatosi per l’amianto a mettere in un verbale, a futura memoria, le condizioni di lavoro nelle navi, il rischio a cui gli inconsapevoli equipaggi erano sottoposti.

È una fotografia in bianco e nero della faccia nascosta della Marina Militare. Ciò che nessuno si aspettava, scoperta dissacrante del trattamento riservato ai fedeli servitori del tricolore nel regno della fatica e del sudore, senza regole né rispetto per la salute. Trattati come viaggiatori all’inferno senza biglietto di ritorno. Non ci sono sorrisi, brindisi alla vita e alla giovinezza, in questa istantanea senza speranza. C’è solo il rantolo di un uomo malato e stanco. «Io stavo in sala caldaie dove c’è una temperatura ambientale all’incirca di 40-50 gradi e una temperatura della caldaia diciamo di 450 gradi e una pressione di 50… Lascio immaginare che protezione avevano i tubi che conducevano questo tipo di vapore. In locale motrice arrivava lo stesso vapore con la stessa temperatura e con la stessa pressione, altrimenti non si poteva navigare. I primi 7-8 anni le guardie si facevano solo ed esclusivamente nel locale caldaie. Noi dovevamo stare lì sotto estate e inverno».

Allora l’amianto era vissuto come una risorsa, non come una dannazione. «Siccome c’era parecchio caldo ci dovevamo spogliare, lavoravamo a braccia scoperte e senza nessun tipo di maschera, anzi io ho lavorato pure sulle testate di vapore della nave Impavido, che si trovano sotto la scaletta in motrice di prora…». L’immagine sembra provenire da un altro mondo, neppure troppo lontano visto che quel cacciatorpediniere è stato radiato nel 1991. «Un giorno era saltata una ‘dialico’, la guarnizione di vapore, e ha cominciato a fuoriuscire del vapore, che ha saturato quasi tutta la nave di caldo. Si doveva per forza intervenire. E io ho tolto via esattamente mezzo quintale di amianto per poter sostituire la ‘dialico’… stavo con una mazzetta da 12 chili, da 15 chili, una chiave da 48. Stavo a slip… a scarponciini, a slip a lavorare così, senza nessun tipo di protezione».

Evento imprevedibile, si potrebbe pensare. Invece, anche la routine era pericolo diffuso. «Le tubazioni erano chilometri, arrivavano in tutta la nave, pure dove si dormiva, con queste coperture di amianto o di quelle cose lì… pure nei camerini, nei bagni, dappertutto c’era questa cosa”. Amianto, un nemico invisibile. E neppure annunciato. “Non ci hanno mai allertato in tal senso. Mai. Io non ho mai saputo. Adesso lo sto sapendo, perché sto passando le conseguenze… Ci hanno mandati allo sbaraglio».

Così sono stati ridotti quei bravi ragazzi, incapaci di difendersi da un’entità ostile di cui neppure conoscevano l’esistenza. Ma il tempo trascorso non induca alla sottovalutazione o al rilassamento delle coscienze di fronte a una malattia indotta da cause tecnico-ambientali, che qualcuno vorrebbe incolpevole figlia dei suoi tempi. I magistrati padovani non lo hanno fatto. Il pubblico ministero militare Sergio Dini ha aperto la prima inchiesta per la morte da mesotelioma pleurico sinistro di tipo epiteliale, avvenuta il 3 febbraio 2002, del puntatore cannoniere Giuseppe Calabrò. Il sostituto Emma Ferrero ne ha avviata una seconda, in Procura ordinaria, anche per il decesso di Baglivo del 2005. Da quelle istruttorie è nato il processo “Marina Uno”, primo tentativo di squarciare il velo sugli omicidi colposi che per decenni si sono consumati sulle navi della Marina italiana a causa dell’amianto e della mancata osservanza delle regole di tutela da parte degli ammiragli, alias datori di lavoro dei marinai. Il processo in Tribunale si è concluso con l’assoluzione, l’appello con la prescrizione dei reati. Ma il ping-pong della Cassazione ha rimandato tutto indietro, con la conferma della prescrizione. Giustizia per il codice, giustizia negata per chi sta morendo. 

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