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Non posso venire, ha scritto via sms un po’ imbarazzato. Niet from London, da Londra dicono no. Anche se Urfa è a 6 ore di aereo da Londra, è in Turchia. Ma è a Londra, e nelle altre capitali occidentali, che hanno sede le ONG che si occupano di Siria: ed è a Londra, a Milano, a Parigi, che si valutano le condizioni di sicurezza, in particolare il rischio sequestri. E così, l’anonimo Litai Café è finito nella lista nera. A., tedesco, è stato qui cinque giorni per decidere di cosa i profughi hanno più bisogno. Ma l’ha deciso chiuso in ufficio. Troppo pericoloso girare per Urfa.

Come molti altri, vive a Istanbul. Non è mai stato in Siria. Né è mai entrato in un campo profughi.

“Potevo rimanermene a Istanbul, e con quello che ho speso, sfamare per un mese i due bambini di Aleppo che chiedono l’elemosina sotto casa mia. Ero più utile così”, è sbottato. E non è stato il solo. Da quando sono apparsi i tagliatori di teste, le misure di sicurezza, qui, sono rigorose: con il risultato, però, che quelli bravi chiedono di essere trasferiti. Perché già è difficile accettare di lavorare sulla Siria, invece che in Siria – ma così non ha senso. Rimangono gli altri, quelli alla prima esperienza. Quelli che hanno 26, 27 anni, sono freschi di laurea e teorie su come salvare il mondo, e non trovano niente di strano nel non incontrare mai quelli che dovrebbero aiutare – o meglio: che dovrebbero aiutare ad aiutarsi, perché il colonialismo è finito, naturalmente, e la parola d’ordine, oggi, è empowering: non distribuire pesci, ma insegnare a pescare. Se non fosse che poi stanno tutti tra di loro, e gli unici indigeni che frequentano sono i tassisti.

Ti dicono: Sono sul campo, I’m on the field, come se stessero nella giungla. Fuori da Milano, Parigi, Londra, per loro tutto è field. Prateria. Anche se ti chiamano dall’Hilton Hotel di Urfa.

E a Urfa è particolarmente imbarazzante, perché Urfa è bellissima. Meta di migliaia di pellegrini: è caffè e hotel a ogni angolo. Perché qui è nato Abramo, patriarca comune di Ebraismo, Cristianesimo e Islam. E qui, si dice, avendo criticato i culti pagani, fu gettato su una pira giù dalla collina: ma il fuoco si trasformò in acqua, e le braci in carpe – quelle che ancora si intravedono nei canali che attraversano il parco. Urfa è magnifica, è la Turchia da cartolina. Trincerarsi in ufficio, qui, non solo non ha senso: ma crea rischi, invece che ridurli. Abbiamo questa idea militare della sicurezza. Scorte, intelligence, blindati. Guardie armate, conversazioni criptate. Non uscire, non parlare. E nel caso, parlare senza dire. Vaghi. Non scoprirsi mai. Essere invisibili. Come se fosse possibile, poi, in società così, in cui si conoscono tutti, sono tutti cugini – e noi, in più, siamo tutti vestiti uguale: tutti targati North Face. Abbiamo questa idea della sicurezza come muri e barricate. Ma la sicurezza viene dalla scelta opposta: integrarsi. Essere parte delle società di cui siamo ospiti, con delicatezza e curiosità. Rispetto. Stranieri, ma non estranei.

“Pensa capitasse a te. Tre anni di guerra, l’Italia in macerie. La tua vita stravolta. E tutti questi arabi, all’improvviso, che parlano solo arabo, vivono tra di loro, hanno letto a stento un libro sul tuo paese e a vent’anni sono qui a gestire milioni di dollari per progetti su cui nessuno ha mai chiesto il tuo parere”, mi dice uno dei due siriani con cui aspettavo A. per cena.

La paura degli jihadisti sta degenerando in fobia. E come ogni fobia, impedisce un’analisi lucida, razionale. Impedisce la comprensione del contesto. Perché non stiamo parlando di Raqqa, di Mosul. Stiamo parlando di Urfa: una città curda, qui vicino è nato Abdullah Ocalan. Le aree grigie, pericolose, le terre di nessuno da cui si infiltrano in Siria armi e combattenti sono Antep e Hatay, più a ovest. Ma qui ci sono i curdi: e di conseguenza, c’è la Turchia. C’è lo Stato. C’è una minoranza che chiede diritti e autonomia, e uno Stato che bolla questa battaglia come terrorismo. Polizia, esercito. Controlli ferrei.

“Ma D. viene?”, ho chiesto. D. lavora in un’altra ONG. “Non l’abbiamo chiamato”, mi hanno risposto. “Sai che tra ONG si detestano”. Perché la competizione, tra le ONG, è feroce. E ho pensato a Jamal Jouma, a Ramallah, uno dei miei più cari amici. Ma se vi scontrate per ogni progetto, dice sempre, per ogni finanziamento, non vi scambiate informazioni, non vi parlate, vi ostacolate in ogni modo possibile, ma che esempio date a israeliani e palestinesi? Con che credibilità venite a dirci di fidarci gli uni degli altri? Di vivere insieme?

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