Alla fine il conto arriva. Mario Ciancio Sanfilippo è proprietario del quotidiano catanese La Sicilia, di tutte le Tv locali e delle due più importanti reti radiofoniche catanesi. Ex presidente della Fieg e attuale vice presidente dell’Ansa, è insomma uno degli uomini più potenti della Sicilia, ed è il padrone assoluto di Catania, una città nella quale i suoi interessi spaziano dalla speculazione edilizia, ai centri commerciali, fino all’editoria usata come una potentissima arma di condizionamento della politica. Una città dove il suo potere assomiglia a quello di un feudatario: un vecchio gattopardo capace di annusare il vento prima che si levi la brezza.

Ebbene anche per lui il conto, decisamente salato, è arrivato. Ed è arrivato in due rate. La prima, venerdì scorso, quando la Corte d’appello di Catania, sezione lavoro, ha reintegrato nel loro posto di lavoro, riconoscendo anche un pesantissimo risarcimento per il danno subito, cinque giornalisti di Telecolor, che Ciancio aveva cacciato con stolta arroganza nel 2006. “Alla fine – è stato scritto in un comunicato – anche a Catania c’è un giudice”. Bisogna dire che in realtà ve ne sono sono due. Il secondo giudice si chiama Luigi Barone ed è il responsabile del secondo amarissimo boccone per l’erede dei “cavalieri dell’apocalisse”. Barone è un giudice delle indagini preliminari e sul suo tavolo era finita la richiesta di archiviazione presentata, col visto del nuovo Procuratore Giovanni Salvi, dalla Procura di Catania che per tre anni aveva indagato Ciancio per concorso esterno in associazione mafiosa. Barone ha letto con attenzione le carte del fascicolo e ha deciso di non accogliere la richiesta di archiviazione. Ciancio dunque dovrà affrontare un’udienza in camera di consiglio, al termine della quale potrà essere decisa un’imputazione coatta, un supplemento di indagini o, ma appare piuttosto improbabile, l’archiviazione del caso.

Un giudice ha deciso di non avere rispetto e di costringerlo a salire le scale del Palazzo di Giustizia per fare i conti con accuse gravissime. Lo ha convocato in Tribunale a difendersi dall’accusa di aver avuto rapporti con Cosa nostra. Ma Ciancio non sarà solo in quell’udienza. A rispondere al giudice non sarà solo lui, ma un “sistema”, un modello di esercizio del potere che non ha avuto scrupoli, che ha accettato di avere la mafia come un partner, che ha coperto di silenzi la distruzione di una città, della sua coscienza, della sua vitalità, della sua straordinaria forza creativa; che ha cacciato le intelligenze migliori, che ha ucciso ogni energia in nome del privato interesse, in nome della sua stessa essenza. Un potere cieco, violento, autoreferenziale, ma, soprattutto, stupidamente ottuso.

Barone ha seguito, nel caso di Ciancio, il medesimo comportamento seguito nel caso del governatore Raffaele Lombardo, per il quale i due procuratori aggiunti, Patanè e Zuccaro, contro il parere dei sostituti Gennaro e Santonocito, avevano chiesto l’archiviazione. Una prassi che sembra ripetersi con puntualità a Catania per le indagini che coinvolgono potenti e colletti bianchi: richiesta di archiviazione da parte della Procura e solenne bocciatura da parte dell’ufficio del Gip. Bisogna dire, fuor di metafora, che con l’arrivo di Giovanni Salvi al vertice dell’Ufficio, era forse lecito aspettarsi qualcosa in più.

I due bocconi amari per Ciancio hanno un valore storico per Catania e per la Sicilia. Difficilmente appena qualche anno fa si sarebbe arrivato a tanto. Il Sistema Ciancio, basato su una fittissima rete di relazioni, gratitudini, coercizioni, costruito alternando blandizia e minaccia, è stato l’essenza stessa del potere a Catania. Un potere che, come emerge dall’inchiesta, non è stato esente da contatti, rapporti, condizionamenti con la mafia. Un potere che sino a pochissimo tempo fa faceva chinare la testa a tutti.

Quando il 30 novembre del 2010 Il Fatto Quotidiano rivelò dell’esistenza dell’indagine per fatti di mafia su Ciancio nessuno a Catania aprì bocca. Rimasero tutti, compresi i campioni dell’antimafia militante, muti e immobili come statue di sale. Lodevole eccezione furono le parole durissime di Claudio Fava e Sonia Alfano. Il Re era nudo, ma nessuno voleva vederlo.

Per questo motivo, oggi gli atti della magistratura hanno un valore storico. Tolgono ogni alibi ai sepolcri imbiancati, ai vili. Dimostrano che si può resistere, si può combattere una battaglia contro il sistema di potere che soffoca la Sicilia e Catania. Basta avere una piccola dose di coraggio e accettare di correre dei rischi. Si può combattere e, udite udite, si può vincere. Da oggi chi china la schiena, chi si sottomette al rito del bacio della pantofola verso i potenti lo fa – non per immutabile decisione del destino – ma per vocazione al servaggio.

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