Le convention, vanno sostenendo molti politologi americani, non hanno ormai – a dispetto della loro crescente rumorosità e dell’immutata, ossessiva, attenzione dei media – che un pressoché irrilevante peso nella corsa per la Casa Bianca. E ai repubblicani non resta che sperare – a questo punto, mentre i democratici s’apprestano ad aprire, in quel di Charlotte, North Carolina, la propria grande kermesse elettorale – che così davvero stiano le cose. Non per altro: i primi sondaggi chiamati a misurare gli effetti della Convention di Tampa Bay (vedi qui quelli della Gallup) altro non hanno fatto che rivelare, in materia di tendenze elettorali, diagrammi assolutamente piatti. Ovvero: non hanno messo in mostra, a vantaggio di Mitt Romney, alcun misurabile “bump”. Quarantacinque a quarantaquattro (in favore di Obama) era la competizione il giorno in cui Reince Prebius, segretario del RNC (Republican National Committee), ha solennemente aperto i lavori della Convention. E 45 a 44 è oggi. Tutto come prima. Tutto come se nulla fosse accaduto. Ed è la prima volta che questo accade. Il vento dei “grandi discorsi” pronunciati dal podio del Tampa Bay Times Forum, non ha apparentemente sollevato una foglia. E come se ciò non bastasse, il più grande di questi grandi discorsi – l’“acceptance speech” di Willard Mitt Romney – è risultato, dati alla mano, il più tiepidamente accolto della storia delle Convention, strappando la maglia nera – cosa fino a ieri giudicata impossibile – alla sgangherata concione con cui, nel 1996, a San Diego, prima di venire massacrato nelle urne da Bill Clinton, Bob Dole aveva lanciato la sua candidatura.

Brutti segnali per il Grand Old Party. Brutti, ma tutt’altro che definitivi, dovesse questa bonaccia sondaggistica riproporsi (cosa assai probabile) anche nei postumi della Convention democratica di Charlotte. La corsa resta, a tutti gli effetti, apertissima. E a vantaggio dei repubblicani gioca, ben oltre gli esiti degli Stati Generali di Tampa, l’unica cosa che del discorso di Romney valga la pena ricordare. E l’unica, anche, che davvero pesa ai fini elettorali. Vale a dire: la domanda che – riecheggiando quella che, nel 1980, consentì a Reagan di detronizzare Jimmy Carter – il candidato repubblicano ha, dal podio, più volte rivolto agli elettori: “state meglio oggi, o stavate meglio quattro anni fa?”.

Eppure, al di là della morta gora dei sondaggi, qualcosa, a Tampa, si è mosso. Perché in un mondo, quello della politica, dove la menzogna è, da sempre, parte essenziale del panorama, la Convention repubblicana è riuscita in effetti ad aprire, in materia, nuove ed inesplorate frontiere. Come? Non solo sfornando menzogne in quantità industriali, ma costruendo attorno ad una menzogna (“yes, they did build it”, come vedremo) l’intera Convention. Il tutto ufficialmente ed orgogliosamente dichiarando di non avere intenzione alcuna di permettere alla verità – la dura verità dei fatti – di condizionare il loro agire politico.

Le cose sono andate così. Tutto, nel grande show di Tampa, ha girato attorno ad uno slogan – “We did build it”, traducibile in un “e invece sì, lo abbiamo costruito noi” – estrapolato da un recente discorso di Barack Obama in quel di Irwin, Pennsylvania. In quel discorso, Obama aveva elogiato in lungo ed in largo le virtù dello spirito imprenditoriale che “ha fatto grande l’America”, ma aveva anche ricordato come, per esprimersi al meglio, quello spirito avesse bisogno di istituzioni pubbliche funzionanti. Pensate ai ponti, alle strade, aveva detto Obama. E, con del tutto ovvio riferimento, per l’appunto, ai ponti ed alle strade aveva aggiunto: “You didn’t build it”, non le avete costruite voi.

Per i repubblicani quella frase – grossolanamente privata del suo contesto – è immediatamente diventata una sorta “espropriazione di merito” (non siete stati voi, businessmen grandi o piccoli, a costruire le vostre imprese), nonché la prova provata della mai dichiarata ma del tutto ovvia vocazione collettivista del presidente in carica. E come tale si è trasformata, capovolta, nella colonna sonora della Convenzione. E questo a dispetto del fatto che tutti i giornalisti che, su vari media, si dedicano alla comparazione tra la realtà dei fatti e la propaganda di questa campagna (i cosiddetti “fact checkers”), avessero immediatamente collocato questo ritornello nel più profondo girone della menzogna: quello di norma chiamato “pants on fire”, mutande in fiamme (dalla filastrocca per bambini “liar, liar, pants of fire”. In Italiano (e senza rima): bugiardo, bugiardo hai le mutande in fiamme).

Estrapolare, distorcere e mentire – già l’ho scritto – non è, in politica, propriamente una novità. Ma si tratta in genere, per parafrasare un vecchio proverbio, d’un gioco (il gioco antico dell’insinuazione e della calunnia) che è bello quando dura poco. O meglio: che dura fino a quando una menzogna non viene rivelata come tale. Non in questo caso. Non nella convention di Tampa…Perché? Perché, ha spiegato a chi gli chiedeva conto dell’anomalia, Neil Newhouse, uno dei capi della campagna di Romney, “il partito non ha alcuna intenzione di farsi dettare la linea politica dai ‘fact chekers’…”.

La storia delle bugie di Tampa, comincia qui. Ed è una storia ricca di interessantissimi dettagli. La racconterò domani…

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