A colpire, più che la rivendicazione degli scontri e della violenza, sono gli attacchi al resto dei manifestanti. Con gli indignanti che, nelle loro parole, diventano “l’espressione di un mondo che sta morendo”, vittime dell’illusione di poter avere “un buon governo”. Con i pacifisti definiti tout court dei “cittadini belanti”. E con i centri sociali dei disobbedienti considerati dei moderati, anzi dei nemici “pronti a vendersi per quattro poltrone a sinistra”.

Anche per questo, ma non solo, il filmato che vedete pubblicato in queste pagine web è un documento importante. L’intervista a distanza che ilfattoquotidiano.it è riuscito a ottenere inviando delle domande scritte a un gruppo di esponenti di rilievo del cosiddetto blocco nero, è infatti utile per capire cosa sta accadendo nell’ala più dura del movimento, dopo i disordini di sabato 15 ottobre e alla vigilia della manifestazione contro la Tav. Dopo averla ascoltata resta netta l’impressione di trovarsi di fronte a una sorta di manifesto politico. A una piattaforma che col tempo rischia di trovare seguaci pure tra chi protesta democraticamente.

Il filo conduttore del colloquio è infatti la rabbia. Una rabbia ormai non più solo generazionale che è destinata ad aumentare e diffondersi se il Paese non tenterà di risolvere i suoi molti problemi: la crisi economica, una classe politica spesso vecchia e corrotta, le diseguaglianze sociali che di giorno in giorno si allargano.

Certo, i violenti sono fortunatamente pochi e di fatto non propongono soluzioni. Teorizzano l’insurrezione (e già qui ci sarebbe molto da eccepire), ma non spiegano cosa secondo loro deve venire dopo. Negli anni ’70, quando un pezzo importante di una generazione si diede addirittura al terrorismo o gravitò pericolosamente intorno alla lotta armata, quella follia almeno un obbiettivo (che chi scrive non ha mai condiviso) lo aveva: il marxismo e la dittatura del proletariato.

Adesso invece l’obbiettivo è “la rivoluzione, la distruzione e il superamento delle cose presenti”. E la principale ragione di essere dei protagonisti degli scontri è quella di rappresentare “una forza che sappia spazzare via il passato, la politica classica, la finta illusione di libertà, il capitalismo mercantile e forse la democrazia stessa”.

Insomma, il dopo non c’è.  L’obbiettivo finale non esiste. Quello che conta di più è la battaglia, lo scontro, l’assenza di paura.

Così quando i nostri interlocutori definiscono “vittoriosa la giornata del 15 ottobre” anche perché in piazza San Giovanni duemila persone (tra cui molti ultras del calcio e paradossalmente qualche cane sciolto dell’estrema destra) hanno tenuto per ore impegnate le forze di polizia costringendole a indietreggiare, finiscono senza volerlo per riecheggiare il mito dannunziano della bella morte.

Sorridere e sottovalutare però sarebbe sbagliato. Perché, se è vero che proprio il corteo del 15 ottobre ha più volte dimostrato coi fatti di voler espellere i violenti e molti manifestanti hanno messo in Rete le foto con i loro volti perché venissero identificati (e questa non è social delation, ma una precisa scelta politica), è anche vero che in tanti, in troppi, cittadini pensano ormai di non avere più un futuro. E in un Paese senza futuro, il virus antico di chi da sempre sogna e pratica l’insurrezione, può davvero sperare di crescere.

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