Beppe Grillo ha di fatto aperto la campagna elettorale del suo movimento in vista di possibili elezioni politiche. Lo ha fatto con una manifestazione-evento dall’indubbia forza e efficacia. Anche se molte testimonianze ci dicono che lo spazio occupato per il Woodstock di Cesena non può contenere più di 15-20 mila persone stiamo parlando di una iniziativa riuscita, importante, mobilitante.

Del resto, mobilitante Grillo lo è dalla nascita, con la sua capacità istrionica di suscitare emozioni e indicare soluzioni, a volte davvero innovative e radicali, e con l’istinto vitale di chi ha capito la marcescenza della politica italiana. Intervista da Santoro nella campagna elettorale del 2008 pronosticò sicuro: “Chiunque vinca non dura più di due anni”. I fatti gli danno ragione perché dei fatti Grillo dà una valutazione sostanziale, di fondo, senza basarsi sul chiacchiericcio quotidiano della politica italiana fatto di impressionismo, di coazione a ripetere, di moventi all’agire dettati sempre e solo dal tornaconto personale. C’è una crisi di sistema in cui la crisi economica si traduce in crisi politica e istituzionale e il movimento grillino si pone problemi di strategia: come gestire l’ambiente nei prossimi dieci-venti anni, come riformare in radice gli assetti istituzionali, come dare ascolto e voce a istanze che salgono dal basso della società. Insomma, un movimento radicale – rivoluzionario abbiamo sentito a Cesena – con cui si dovranno fare i conti.

Allo stesso tempo ci sembra però che la proposta politica, gli strumenti proposti e l’offerta all’elettorato scontino ancora alcune contraddizioni e alcuni paradossi.

Il primo riguarda il metodo di lavoro scelto, Internet. La Rete è uno strumento formidabile di scambi e di relazioni ma consegnarle per intero una pratica di democrazia non è convincente. Scegliere i candidati online e così procedere anche per il programma non solo si presta a rischi evidenti di taroccamento ma priva una comunità, un gruppo politico, un movimento di una forma di democrazia di base. Il confronto diretto, anche lo scontro, la discussione reale di temi e progetti non può che avvenire “de visu” in un rapporto che non lascia statiche le istanze di partenza ma permette una loro modifica in corso d’opera. Ovviamente, cercando forme innovative che non lascino spazio solo a coloro in grado di urlare di più o parlare meglio, di rappresentare tutti e così via. Ma il confronto non può che essere diretto perché la democrazia migliore è quella diretta. In Internet è mediata.

Un secondo problema riguarda il progetto politico. Non c’è dubbio che il sentimento del momento sia ben rappresentato da quell’operaio della Fincantieri intervenuto a Annozero – e riproposto dal sito di Beppe Grillo – che urla “Basta! E’ ora di finirla!” ai politici presenti in studio. “Que se vayan todos” hanno gridato i movimenti in Argentina quando la crisi ha fatto precipitare il paese nel 2001 e una classe dirigente è stata spazzata via. Questo umore Grillo lo rappresenta benissimo. Così come molto bene esplicita alcuni elementi di programma, ad esempio in materia di energia, di trasporti, di informazione. Riesce cioè a rappresentare istanze evolute presenti nella società e nei movimenti che lo hanno reso il simbolo più votato in Val di Susa alle recenti elezioni regionali. Ma l’insieme del programma a noi sembra ancora molto eclettico, un misto di innovazioni utili – il limite ai due mandati elettorali, gli stipendi dei parlamentari e l’abolizione della loro pensione, l’uso del referendum propositivo, la proprietà intellettuale, il sussidio di disoccupazione, il tetto agli stipendi dei manager o l’abolizione delle scatole cinesi – con un piano di riforma liberale e liberista dell’economia. Ci riferiamo alla generica proposta di ridurre il debito pubblico “tagliando di costi dello Stato” senza specificare quali; l’abolizione del valore legale del titolo di studio che, in realtà, incentiva gli istituti privati più prestigiosi – un conto è laurearsi alla Bocconi, un conto alll’Università del Sannio; l’idea di far possedere i canali televisivi o i giornali a soggetti privati solo nella misura del 10% con azionariato pubblico che in genere favorisce il potere dei manager; l’abolizione delle province o il taglio di fondi a testate giornalistiche. Po ci sono invece rivendicazioni socialmente importanti come l’abolizione della Legge Biagi, il sussidio di disoccupazione garantito (ma chi lo paga?), il blocco della Tav o del Ponte sullo Stretto, gli incentivi alla sanità e alla scuola pubblica, l’abolizione della legge Gelmini. Qual è l’equilibrio? Si pensa a “riformare il capitalismo” o a un programma di più radicale cambiamento? Se ti candidi fuori dai poli – né con il centrodestra né con il centrosinistra – come è giusto per chi voglia cambiare questo Paese, occorre un progetto di “governo” della società più compiuto. E scelte più nette. Con Marchionne o con gli operai? Per il ritiro delle truppe italiane in guerra o per la guerra umanitaria? Per ridurre il debito e favorire la ripresa tassando le grandi fortune o “riducendo i costi”? Per la cittadinanza ai migranti e il diritto di soggiorno oppure le quote di ingresso? Si potrebbe continuare.

Infine, un paradosso. Perché un movimento così “anti-istituzionale” – antipolitico infatti non è corretto – si dà come unico scopo quello di entrare nelle istituzioni, di stare in Parlamento, nei consigli comunali e regionali? E’ davvero solo quella l’unica forma di politica? E non rischia di creare nuovo personale politico scollegato dalla società perché, magari, collegato solo alla Rete?

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