«Davide e Alice non volevano assistere allo sfacelo dell’azienda che aveva fondato il padre, e andarono via dalla Sigma. La Gepi continuò a fare disastri, fece quello che hanno fatto i tanti manager dell’Alitalia. La Sigma fallì. Mia figlia Alice si mise a fare l’architetto, Davide diventò un dipendente della Regione.

«Dieci anni dopo abbiamo avuto il risarcimento dello Stato in base alla legge Libero Grassi. Davide ha riaperto la Sigma anche se in piccolo. Con quindici maestranze produce sempre pigiameria maschile e ha riacquistato la vecchia clientela italiana. La sede è in via Crocerossa, in uno stabile sequestrato a un mafioso e con un’amministrazione controllata. L’inaugurazione è avvenuta il 29 agosto 2001. Mia figlia Alice ha fondato la SPI, strategie e progetti di impresa. Io ho chiuso il negozio di tessile d’arredo che avevo in affitto in via Cavour e nella stesse sede della SPI, dove stiamo parlando, ho il mio studio con il campionario tessile.»

Dopo la morte di Libero, l’impegno sociale che già faceva parte della vita di Pina Grassi diventa impegno in Parlamento: «Per me, per Libero e per i miei figli l’impegno nella società è stato scontato, nei contesti in cui ci troviamo cerchiamo di non vivere con la testa nella sabbia. Dopo la morte di Libero, Fracensco Rutelli, leader dei Verdi che avevo conosciuto al partito radicale, insistette perché io mi candidassi alle elezioni. I miei figli erano dubbiosi ma poi dissero di sì a patto che non mi candidi in Sicilia, per evitare strumentalizzazioni. Mi presentai per il Senato a Torino nel collegio Fiat Mirafiori e fui eletta. Era il 1992, undicesima legislatura.

«Noi verdi eravamo solo in quattro a Palazzo Madama, ognuno di noi doveva seguire tre commissioni. A me toccò far parte anche della giunta per le autorizzazioni a procedere. Un compito delicato, estremamente interessante perché abbiamo dovuto affrontare la richiesta della Procura di Palermo di autorizzazione a procedere nei confronti di Giulio Andreotti. Ricordando questa vicenda io amo dire che il suo processo è stato celebrato per il mio assenso dato che i sì hanno vinto solo per un voto.»

Pina Grassi vuole aprire una parentesi su Andreotti: «L’ho sempre considerato un personaggio molto brutto, gli attribuisco molti guai dell’Italia. Leggere gli atti dell’inchiesta mi dilaniava perché è in Sicilia che ha fatto più danni. Soprattutto a Palermo con i suoi rappresentanti Lima e Ciancimino. Quando in giunta mi ritrovai Andreotti davanti mi ricordai di mia figlia che da bambina insieme a una sua amichetta metteva in imbarazzo un bambino guardandolo negli occhi. Io feci come mia figlia, guardai Andreotti negli occhi e gli dissi che non poteva non sapere che Vito Ciancimino e Salvo Lima fossero complici della mafia e che lavorando con loro lavorava anche lui per la mafia. Andreotti alla fine della seduta passò davanti al mio banco e mi disse: “Quando tutto questo sarà finito, le dirò.”»

E vi siete parlati alla fine del processo?

«Dopo la parziale assoluzione gli ho scritto una lettera: “Si ricorda che doveva rispondermi?” Lo ha fatto, in maniera molto formale. Mi ha ricordato, come fa sempre, che lui fu il fautore della prima legge antimafia alla fine degli anni Ottanta. Infatti, dico io, secondo una sentenza definitiva Andreotti è stato garante della mafia fino all’80 ma non è stato possibile perseguirlo per la prescrizione del reato».

Per Pina Grassi l’esperienza parlamentare sia pur breve è stata importante: «Partecipare ai lavori del Parlamento è di un interesse straordinario, soprattutto per il lavoro alle commissioni dove si creano le leggi. Ti senti una cittadina attiva che può incidere, se onesta , positivamente alla crescita del Paese. Io ho messo in quell’esperienza il massimo della passione, lavoravo dalle 8.30 del mattino alle 9 di sera. Ai ragazzi dico: se avete voglia di fare carriera politica intesa come servizio, fatela. È il massimo.»

Nonostante questo convincimento Pina Grassi è rimasta in Parlamento solo due anni e mezzo e non si è più ricandidata, è tornata all’impegno della società civile.

«Non volevo un ruolo nella federazione dei Verdi, volevo stare fuori dai giochi della Segreteria e quindi non mi sembrava giusto togliere la possibilità di un seggio a chi ne faceva parte. Per me si era conclusa quell’esperienza, volevo tornare a Palermo e al mio lavoro.

«È importante fare politica avendo un altro lavoro, altrimenti si possono fare carte false per essere eletto. Dopo la fine del mio mandato al Senato ho continuato a essere attenta al sociale, non mi sono mai fatta i fatti miei. C’è un modo di dire in siciliano che non mi piace affatto: “S’avissi a fari”, questa cosa si dovrebbe fare, senza un soggetto, un tempo, un luogo. Invece la responsabilità personale è importante».

Durante la tua esperienza parlamentare ci sono state le stragi di Capaci e Via D’Amelio a Palermo, le stragi di Firenze e Milano, il fallito attentato a Maurizio Costanzo a Roma. Pensi che abbiano segnato l’inizio della fine di Cosa Nostra?

«Me lo auguro. Dipenderà molto dalla classe politica, dalla magistratura e dalle forze di polizia – che mi sembra stiano lavorando bene in molti casi – dalla società civile. Certo è che l’omicidio di Libero e soprattutto l’uccisione di Falcone e Borsellino, le bombe del 1993, sono stati un boomerang per la mafia. Ma per favore, per favore, non trattiamo queste vittime come eroi. Mi ribello a questa operazione che altro non è che un lavarsi la coscienza e non assumersi alcuna responsabilità».

Pina Grassi continua, come ama dire, a non farsi i fatti suoi e lavora anche con Libera.

«Appena si è costituita mi sono offerta di collaborare con Libera perché credevo molto nella battaglia per ottenere la legge sull’uso sociale dei beni confiscati. Per Libera ci sono sempre e ogni volta che posso contribuire, corro. Vado nelle scuole, partecipo sempre al 21 marzo.

«Il tempo fa dimenticare e giornate come queste sono importantissime per esplicitare il ricordo, per fare in modo che non si dimentichi. La valanga di notizie che abbiamo dalla tv, da internet, dai giornali, fa digerire qualsiasi fatto. Ormai accade che persino una notizia del giorno prima venga dimenticata anche se per chi la subisce è la cosa più importante del mondo. Quindi se io non faccio qualcosa è inevitabile che si dimentichi. Questa consapevolezza è stata la motivazione principale della mia scelta di fare testimonianza, di raccontare la storia di Libero. E non voglio ricordare la storia personale di Libero Grassi o la storia della nostra famiglia, voglio ricordare il fatto collettivo.

«Ritengo che avere in mente quanto successo a mio marito sia indicativo della cattiva gestione della Cosa pubblica da parte di chi ci governa e ciò interessa i miei figli, i miei nipoti, le generazioni presenti e future. Non voglio che Libero sia un’icona fine a se stessa, ma che possa essere da esempio per il comportamento di una persona nei confronti della società che le sta attorno». (segue)

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