Dopo 31 anni si è tolto il passamontagna perché dice che è impossibile votare “un simbolo“. È critico col governo di Giorgia Meloni ma cerca di non fare polemica, neanche sul ministro Carlo Nordo, secondo il quale i mafiosi non parlano al telefono per commettere reati. “È la sua opinione, ma su questo bisognerebbe chiedere come la pensano i carabinieri, i poliziotti e i finanzieri”. Poi propone di togliere i diritti politici ai parenti dei mafiosi: “Solo così si combatte il voto di scambio”. Sergio De Caprio, universalmente noto come il capitano Ultimo, è uno dei candidati di punta di Cateno De Luca alle Europee. Nel simbolo matrioska di Libertà, la lista del sindaco di Taormina, c’è anche il suo: un cerchio bianco e nero con scritto Capitano Ultimo. In realtà oggi De Caprio sarebbe un generale in congedo, ma continua a presentarsi così: “Chiamatemi capitano”. Diventato noto con l’arresto di Totò Riina, ha guadagnato fama nazionale grazie alla fiction in cui veniva impersonato da Raoul Bova. In quarant’anni di carriera si è occupato di tutto: dalla mafia a Milano, ai fondi neri di Finmeccanica, fino ai soldi della Lega. Più volte è finito al centro di roventi polemiche: dopo l’indagine sulle cooperative, in cui era rimasta intercettata la voce di Matteo Renzi che anticipava l’intenzione di fare le scarpe a Enrico Letta, venne rimosso dalle funzioni investigative del Noe. Due anni dopo ha lasciato l’Aisi, i servizi segreti per l’estero, mentre lo stesso ex premier lo accusava di aver complottato sull’indagine Consip. Prima ancora, invece, era finito sotto inchiesta con l’accusa di favoreggiamento alla mafia per la mancata perquisizione del covo di Riina: fu prosciolto ma gli strascichi su quelle vicende non sono mai finiti. Così come le zone d’ombra di quella controversa stagione, mai illuminate dopo più di tre decenni. “Io posso raccontare cosa è successo, poi chi legge si fa la sua opinione”.

Generale De Caprio, perchè si è tolto il passamontagna dopo 31 anni? Una trovata pubblicitaria in vista della sua candidatura?
No, semplicemente io credo non si possa votare un simbolo. E dunque era una questione oggettiva: per candidarmi non posso avere alcuna copertura, fisica o politica.

Che intende per copertura politica?
Ho scelto di candidarmi con Cateno De Luca, quindi senza alcun paracadute politico.

Perché ha scelto di candidarsi con De Luca? Lei nel 2013 è stato il candidato di bandiera di Fdi al Quirinale.
Quella è stata una candidatura unilaterale, promossa senza sentire la mia opinione.

Però è stato anche assesssore in Calabria in una giunta regionale di centrodestra.
Io sono andato in Calabria perché Jole Santelli mi aveva invitato a fare delle lezioni sulla legalità in una scuola di Cosenza. Poi, siccome le piaceva quello che io dicevo ai ragazzi, mi ha chiesto di darle una mano in Regione.

Resta la domanda: perché non si è candidato con Fdi?
Io non avevo intenzione di fare politica, poi ho incontrato Cateno De Luca per motivi diversi dalla politica. Mi ha colpito il suo amore per il territorio, per quella Sicilia umile dei paesi, mi ha colpito il fatto che è una persona che non abbassa la testa di fronte a nessuno. Mi ha chiesto aiuto, mi ha detto: perché non ci dai una mano in questa politica civica che è slegata da tutti i potenti. Ho sentito che il mio posto era in questo piccolo movimento, accanto a questo piccolo uomo che ha un grande amore per la sua terra.

Che opinone ha del governo Meloni?
Penso vada cambiata questa politica vecchia portata avanti da tutti i governi, compreso l’attuale.

Che intende per vecchia?
La politica dei grandi Stati, della Grande Europa e dei grandi partiti che fanno a gara a chi deve gestire quei 700 miliardi di euro ottenuti come tasse dai cittadini. E siccome poi non sono capaci creano debito solo per avere consenso, senza mai affrontare i veri problemi.

Quali sono i veri problemi?
Quelli degli 8.000 comuni in Italia e degli 88.000 in Europa. I comuni vanno messi al centro dell’assetto amministrativo. Le regioni e il governo dovrebbero occuparsi dei problemi dei comuni italiani, che sono i problemi reali che hanno i cittadini.

Ci faccia un esempio.
Le risorse sterminate del Pnrr per la transizione ecologica: perché ancora non sono ancora stati usati per installare pannelli fotovoltaici sui 16mila chilometri di Ferrovie in modo da creare energia rinnovabile? Cosa devono pensare oggi i cittadini?

Cosa devono pensare?
Pensano di non essere ascoltati e dunque non vanno a votare.

Quindi puntate a prendere i voti dell’astensionismo?
Noi puntiamo a introdurre una visione nuova dell’Europa e dell’Italia. Una politica nuova che non è ideologica, ma si basa sul bene comune che equivale a occuparsi dei comuni attraverso i Contratti di costa, di fiume e di lago. Strumenti che l’Europa ci ha dato ma che non vengono utilizzati. Questo vuol dire mettere il territorio al centro della politica, per creare sviluppo. E poi vogliamo riportare i giovani ad appassionarsi alla politica.

In che modo?
Vogliamo obbligare i sindaci a chiedere il parere obbligatorio ai rappresentanti degli studenti delle scuole superiori sui temi relativi alla progettazione territoriale e sociale.

Lei però è candidato alle Europee: che opinione ha del conflitto in Ucraina?
Credo che il compito dell’Italia nel mondo sia difendere la pace a tutti i costi. Io credo che queste guerre dimostrino il fallimento e l’incapacità di un’intera classe diplomatica e di tutta la politica internazionale. E di questo fallimento devono risponderne.

Facciamo un passo indietro: nel 2015 il generale Del Sette le toglie le funzioni di polizia giudiziaria. All’epoca era al vertice del Noe e aveva indagato sulle cooperative: nell’indagine viene intercettato anche Renzi mentre parla col generale della Finanza Adinolfi, anticipandogli l’intenzione di fare le scarpe a Letta. Ci racconta come è andata quella storia?
Quella era solo un’intercettazione presente nell’indagine. Posso dire che fu presentato un provvedimento di riforma di tutti i reparti speciali, mi furono tolte le funzioni da investigatori. Poi anni dopo ho letto sul Fatto Quotidiano come era andata la vicenda: il comandante generale aveva convocato un generale Sergio Pascali, lo aveva trasferito al Noe e gli aveva dato come incarico quello di neutralizzare il Capitano Ultimo. Mi pare che l’articolo fosse di Marco Lillo.

Sì, è esatto. Poco dopo, tra l’altro, è esploso il caso Consip: Renzi la accusò di complottare ai suoi danni.
Rimasi allibito, molti esponenti politici gridarono al golpe. Mi sembra che le sentenze abbiano dimostrato senza equivoci che non si sia stata alcuna trama per danneggiare non solo Renzi, ma anche il suo governo e il suo partito di allora. Forse è stata un’abile manovra per cancellare per un attimo il fallimento politico di un gruppo dirigente addebitandolo a fattori esterni.

Recentemente tra l’altro si è concluso il primo grado del processo Consip: alla fine di una lunga vicenda processuale sono stati condannati solo i carabinieri Scafarto e Sessa. Che ne pensa?
Posso solo esprimere ai colleghi la mia massima vicinanza e massima solidarietà. Bisogna rispettare le sentenze, ma in secondo grado sono certo che avranno la possibilità di dimostrare l’inconsistenza assoluta di quelle accuse.

Per la giustiza in Italia è un momento cruciale: sono tante le riforme allo studio.
Quello che a me sta a cuore è l’annientamento definitivo delle mafie in Italia.

Pensa sia possibile l’annientamento definitivo delle mafie?
Noi abbiamo creato un percorso di lotta che fondamentalmente si articola su tre punti vincenti. Prima di tutto l’introduzione della legislazione premiale che ha consentito un’espansione del numero collaboratori di giustizia: strumento che ha sgretolato la forza principale dell’organizzazione mafiose cioè la loro segretezza. Poi abbiamo capito che era importante trasferire la lotta anche a livello del circuito carcerario e quindi abbiamo introdotto il 41 bis. Certo è avvenuto solo dopo la morte di Giovanni Falcone, ma questo dipende sempre da una classe politica vergognosa. Quindi l’ergastolo ostativo: al mafioso che non collabora non sono concessi benefici. Ora va concluso questo percorso.

In che modo?
Con due provvedimenti: uno che va a limitare i diritti politici anche ai parenti e agli affini di primo e secondo grado del mafioso che non collabora. A meno che queste persone non dimostrino di aver reciso ogni rapporto con il parente mafioso

Significa vietare ai parenti dei boss i candidarsi e di votare: pensa sia possibile?
È una proposta basata su assetti che già esistono nel nostro Paese. È esattamente l’ambito che viene considerato nella clausola anti pantouflage della legge anticorruzione: quando un politico cessa da un incarico di vertice di un’amministrazione lui e tutti i suoi parenti e affini fino al secondo grado non possono avere incarichi con la medesima amministrazione per un certo periodo di tempo. Bisogna approvare proposte come queste per dare un colpo al famoso voto di scambio politico mafioso.

Ha parlato di due provvedimenti: quale sarebbe il secondo?
I parenti dei mafiosi non devono poter accedere al mondo del lavoro se non collaborano con la giustizia. La sorella di Messina Denaro deve dimostrare di non avere più rapporti con il fratello, oppure non può svolgere alcuna attività, ma solo lavori socialmente utili alle dipendenze dei sindaci. Pensi questo provvedimento che messaggio potrebbe dare nei piccoli paesi dove ci sono quattro Carabinieri e trenta mafiosi. Con strumenti di questo tipo possiamo chiudere un percorso di lotta doloroso.

Lei è noto come il carabiniere che arrestò Totò Riina. Quella vicenda, però, è diventata famosa anche per la mancata perquisizione del covo. Trentuno anni dopo, pensa di aver fatto un errore?
Io ho proposto di non fare la perquisizione nel comprensorio da dove era uscito Riina, perché era una mia tattica di combattimento contro Cosa Nostra. Ho spiegato più volte come è andata. Ho detto: secondo me sarebbe più remunerativo non fare la perquisizione, ma seguire i fratelli Sansone che Balduccio Di Maggio aveva indicato come i tenutari di Riina. Questa cosa non l’ho detta a bassa voce o a una persona al chiuso di una stanza, ma davanti a tutti. L’ho detta davanti al magistrato di turno, unico responsabile della perquisizione che se avesse avuto un’idea diversa dalla mia avrebbe avuto il potere e il dovere di fare diversamente.

Però poi la videosorveglianza venne sospesa.
Nessuno ci disse di filmare e perquisire chiunque usciva da quella casa. Noi, da un punto di visto operativo, abbiamo ritenuto di entrare in azione nel momento migliore, in modo da non farci scoprire dai mafiosi. Solo che il maggiore Roberto Repollino ebbe la buona idea di riferire alla stampa quale fosse il comprensorio dove stava Riina.

Quindi il covo venne bruciato.
Dopodiché cambiarono tutti idea.

Per questa vicenda lei è finito sotto inchiesta per favoreggiamento alla mafia.
Ma sono stato prosciolto: evidentemente i magistrati hanno capito come è andata. E pure la procura non ha fatto neanche appello.

In questi giorni è nuovamente finito indagato il generale Mario Mori, che fu suo co imputato. Questa volta è accusato di non aver impedito le stragi del 1993, nonostante fosse stato allertato da alcune fonti tra la fine del ’92 e il ’93: una è Paolo Bellini, l’estremista nero che si era infiltrato in Cosa nostra. Lei cosa ricorda di quel periodo? Mori le riferì qualcosa su Bellini?
Non conosco i fatti, per quello che leggo sui giornali mi sembra tutto molto surreale. Mi sembra che anziché combattere la mafia e mafiosi, alla fine si colpiscono i pochi che la mafia l’hanno combattuta veramente.

Un’altra vicenda in cui è coinvolto è la sparatoria di Terme Vigliatore contro un giovane, Fortunato Imbesi, scambiato per Pietro Aglieri. All’epoca in quella zona si nascondeva Nitto Santapaola: anche quello può essere stato un errore?
Di questa storia ho parlato in aula, ne ho scritto nei miei libri ma ogni volta comunque mi viene in qualche modo contestata. Molte persone continuano a fare speculazione mediatica su queste vicende. Anche io mi sono fatto una mia idea su cosa sia successo.

E quale sarebbe?
Cangemi Salvatore diceva che quando Cosa Nostra aveva dei problemi con la procura di Palermo si appoggiava al commercialista Piero Di Miceli. E chi ci lavorava nello studio del commercialista Di Miceli? La nuora del procuratore aggiunto Vittorio Aliquò.

Cancemi è il pentito che per primo ha raccontato dei soldi versati dal gruppo di Berlusconi alla mafia. Nel 1994 lei e i suoi uomini avevate cominciato a pedinare il boss Di Napoli: l’indagine venne però bruciata da uno scoop. Che opinione si è fatto su questa vicenda?
Nessuna opinione, per quello che avvenne all’epoca siamo dispiaciuti e basta. È un lavoro difficile, ci vuole tanta attenzione, a volte si vince e a volte si perde. Ma non voglio fare polemiche: dobbiamo cercare unità di azione nell’antimafia. Bisogna capire cosa può agevolare l’attività investigativa e non creare ostacoli alle indagine. E per fare questo bisogna parlare anche con le forze di polizia.

Intende dire che il legislatore ascolta poco l’opinione degli investigatori?
Non poco, per niente. Nessuno mi ha mai chiesto cosa potesse servirmi per migliorare l’azione investigativa. Bisogna parlare con chi lavora, chiede: cosa serve per ascoltare un mafioso che non vuole farsi ascoltare?

Però il ministro Nordio sostiene che i mafiosi non parlino al telefono quando devono compiere reati: lei è d’accordo?
Il ministro avrà la sua opinione, si vede che ha questa esperienza. Però chiediamo cosa ne pensano anche i carabinieri, i poliziotti e i finanzieri. Questo è il Paese dove si sciolgono i consigli comunali per le infiltrazioni mafiose perché non si riesce a far sciogliere le cosche mafiose. Questo è il Paese dove a Valeria Grasso, l’imprenditrice che ha denunciato la famiglia di Nino Madonia, tolgono la scorta quando è a Roma ma gliela lasciano quando è Palermo.

Secondo lei perché?
Perché evidentemente il responsabile della nostra sicurezza ritiene che da Palermo i mafiosi non sono in grado di seguire una persona a Roma.

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