Chi è la misteriosa fonte che nel marzo del 1994 raccontò a Repubblica il contenuto di un verbale del pentito Salvatore Cancemi, bruciando di fatto le prime indagini su presunti collegamenti tra Cosa nostra, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi? C’è anche questo nel libro di Ilda Boccassini, La stanza numero 30 (Feltrinelli), che tanto ha fatto discutere per motivi extra giudiziari. Da tempo la storia dello scoop di Giuseppe D’Avanzo e Attilio Bolzoni sulle scottanti dichiarazioni di Cancemi, relative ai contatti tra i clan e Marcello Dell’Utri – come “emissario” di Silvio Berlusconi – impegna investigatori di lungo corso e appassiona generazioni di cronisti di giudiziaria. Dopo 25 anni arriva anche la versione della pm che raccolse le dichiarazioni dell’importante pentito di Cosa nostra. Ma non solo. Perchè nella sua biografia Boccassini dissemina anche una serie di elementi utili a capire l’identità di chi – raccontando ai giornalisti delle dichiarazioni di Cancemi – mandò a monte le indagini dei carabinieri di Ultimo, impegnati a pedinare il boss Pierino Di Napoli, l’uomo al quale un oscuro “emissario del Nord” consegnava denaro proveniente – secondo il pentito – da Arcore. Questa, però, è una storia complessa, delicata e ormai datata nel tempo: è il caso, dunque, di procedere con ordine, tenendo sempre d’occhio le date.

Tra prima e seconda Repubblica: il contesto – Il 1994 per l’Italia è un anno caratterizzato da profonda incertezza politica: le indagini della procura di Milano su Tangentopoli hanno praticamente spazzato via i partiti della Prima Repubblica. Nessuno ancora lo sa, ma da lì a poco di Repubblica ne nascerà una seconda, con una neonata sigla politica – Forza Italia – che vince a sorpresa le elezioni del 27 e 28 marzo. A quel voto il Paese arriva dopo mesi di terrore e profonda sfiducia: mentre il vecchio sistema politico era stato raso al suolo dalle indagini su mazzette e corruzione, le bombe avevano fatto strage di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, prima di colpire civili a Firenze, Roma e Milano. Sarebbe potuta andare anche peggio. Il 23 gennaio del 1994, infatti, poteva essere uno dei giorni più neri della storia italiana: una Lancia Thema imbottita di esplosivo e tondini di ferro doveva esplodere davanti allo stadio Olimpico, alla fine della partita Roma-Udinese, nei pressi di un bus affollato di carabinieri. Per un guasto al telecomando, quell’attentato – ordinato da Giuseppe Graviano e preparato da Gaspare Spatuzza – non si concretizza. Per molti anni nessuno ne saprà nulla, mentre tre giorni dopo, il 26 gennaio del 1994, Berlusconi ufficializza la sua discesa in campo con il celebre discorso sull’Italia che è “il Paese che amo“. Passano meno di ventiquattro ore e al ristorante Gigi il cacciatore di via Procaccini a Milano, i carabinieri arrestano i fratelli Graviano. Il 18 febbraio, invece, Ilda Boccassini – in quel momento sostituto procuratore applicato alla procura di Caltanissetta per indagare sulla strage di Capaci – si accinge a interrogare Salvatore Cancemi, reggente del mandamento di Porta nuova, che pochi mesi prima – il 22 luglio del 1993 – si era consegnato ai carabinieri. Cancemi è il primo a parlare dell’esistenza di contatti tra Riina e “persone importanti” non affiliate a Cosa nostra: a riferirglielo, sostiene, era stato Raffaele Ganci, boss della Noce e fedelissimo del capo del capi.

Cancemi e il racconto su Dell’Utri e Berlusconi – L’interrogatorio di Cancemi con i magistrati di Caltanissetta doveva essere condotto da Boccassini insieme all’allora procuratore capo, Gianni Tinebra, che però era in ritardo, così come l’avvocato del collaboratore di giustizia. Boccassini racconta di avere deciso di cominciare l’interrogatorio da sola. Prima domanda: “Nei precedenti verbali lei ha riferito di aver saputo da Raffaele Ganci che Salvatore Riina avrebbe avuto un incontro con persone importanti prima che venisse ucciso il giudice Falcone. Personaggi che avrebbero garantito a Riina la revisione dei processi. Conferma queste circostanze?”. È da quel momento che il pentito comincia il suo clamoroso racconto, riportato quasi integralmente nel libro di Boccassini. “Ho il dovere di riferire queste circostanze, che io ho vissuto in questi anni da protagonista. Nel 1990 o 1991, in questo momento non riesco a essere più preciso […], Ganci Raffaele mi disse che Salvatore Riina voleva parlarmi, ci incontrammo nell’ormai famosa villa di Girolamo Guddo. Riina cominciò parlando di Vittorio Mangano, persona che peraltro non era molto gradita allo stesso Riina perché in passato Mangano era vicino a Stefano Bontade. Riina mi disse di riferire a Mangano che non doveva più interferire nel rapporto che lo stesso aveva instaurato da anni con un tale Dell’Utri, collaboratore di Silvio Berlusconi, perché da quel momento i rapporti con il Dell’Utri li avrebbe tenuti direttamente Riina. Quest’ultimo precisò che, secondo gli accordi stabiliti con Dell’Utri che faceva da emissario per conto di Berlusconi, arrivavano a Riina 200 milioni l’anno in più rate, in quanto erano dislocate a Palermo più antenne (questa è l’espressione che usò Riina, ma ovviamente si riferiva a emittenti private)”. Sono rivelazioni esplosive: per la prima volta un collaboratore di giustizia parla di presunti legami tra Arcore e Cosa nostra. Il racconto di Cancemi prosegue: “Quando Riina mi fece il nome di Dell’Utri e mi disse che era una persona di fiducia di Silvio Berlusconi, dando quindi per implicito che Dell’Utri fosse in contatto con la nostra organizzazione, la cosa non mi stupì perché io già sapevo dallo stesso Mangano dell’esistenza di questi contatti”. Mangano, ovviamente, è il boss di Porta Nuova che negli anni ’70 era stato assunto da Berlusconi – su input di Dell’Utri – come stalliere a Villa San Martino ad Arcore. Cancemi continua il suo racconto: “Non sono in grado di dire con certezza che vi erano contatti diretti tra Riina e Dell’Utri, oppure se questi contatti fossero filtrati da emissari, ma una cosa è certa e corrisponde al ‘cento per cento’ a verità: Riina era in contatto con Dell’Utri e quindi con Silvio Berlusconi. Per quanto riguarda gli anni che ci interessano, li dobbiamo collocare dall’89-90 in poi, cioè fino alla mia costituzione. Ho assistito più volte alla consegna di queste rate dei 200 milioni che arrivavano dal Nord. Come ho già detto, la somma stabilita nell’arco di un anno era di 200 milioni. Ma venivano pagate sempre con denaro contante in rate da 40-50 milioni. Queste rate venivano consegnate non so da chi a Pierino Di Napoli, reggente della famiglia di Malaspina, compresa nel mandamento La Noce”.

Le indagini di Ultimo e i pedinamenti – Ma perchè da Milano venivano inviati a Palermo quei 200 milioni all’anno? Boccassini prova a incalzare il pentito: quei soldi non potevano essere “normali” estorsioni, come avviene su tutto il territorio controllato da Cosa nostra? Cancemi replica: “Non credo che il pagamento di quella somma annuale costituisse una specie di pizzo affinché l’imprenditore Berlusconi potesse lavorare tranquillamente a Palermo, ma c’era qualcosa di più, lo avevo intuito perfettamente. D’altro canto Riina, quando mi disse che Mangano si doveva togliere di mezzo, era molto determinato, aveva chiaramente fatto capire che avrebbe eliminato Vittorio se avesse fatto storie. Per il semplice pizzo non si sarebbe mai scoperto in quella maniera”. Nel suo libro Boccasini ricorda: “Ovviamente verbalizzai tutto in fretta, perché intuivo il peso politico che quel racconto avrebbe potuto assumere”. L’ex pm (ora in pensione) spiega che “in buona sostanza, Cancemi aveva dichiarato, verbalizzato e sottoscritto che fino al luglio 1993 un intermediario di Cosa nostra si era adoperato per far transitare verso il capo della sanguinaria mafia corleonese somme di denaro provenienti da Silvio Berlusconi; ci aveva detto il nome del tramite palermitano e la complicata procedura usata per la consegna; Cancemi inoltre aveva personalmente assistito, in più occasioni, al passaggio di decine di milioni di lire in banconote usate raccolte in buste di plastica. Il collaboratore era certo che tali consegne fossero ancora in corso e, infine, escludeva che quei passaggi di denaro costituissero una ‘normale’ estorsione pagata per far lavorare le ‘antenne’ berlusconiane dislocate in Sicilia. A suo giudizio, quelle elargizioni facevano parte di un rapporto del tutto speciale che legava l’imprenditore milanese al capo dei capi della mafia, Totò Riina. Non solo era necessario indagare a fondo, ma anche farlo subito, senza perdere un minuto“. Partono dunque, in grande segreto, gli appostamenti e i pedinamenti affidati ai carabinieri del capitano Sergio De Caprio: “Obiettivo principale delle indagini era, ovviamente, il boss Pierino Di Napoli perché attraverso di lui – sempre che le circostanze riferite da Cancemi fossero risultate veritiere – si sarebbe potuto documentare il passaggio di denaro a favore di Riina. Su Di Napoli, a piede libero perché formalmente incensurato, venne organizzato un servizio di osservazione costante, affidato al capitano Ultimo e alla sua squadra. Benché libero, il boss di Malaspina si muoveva con estrema circospezione, e per comunicare usava cabine telefoniche nonostante possedesse un apparecchio cellulare. Non si accorse mai, comunque, di essere controllato ed eravamo fiduciosi negli sviluppi dell’operazione, avendo rapidamente individuato e messo sotto controllo i luoghi che frequentava e le persone con cui si accompagnava. Insomma, la rete era stata gettata, ma la quantità di pesci che saremmo riusciti a catturare dipendeva dall’efficienza degli uomini che lo seguivano come ombre, e – perché no – anche da un po’ di fortuna”.

Lo scoop di Repubblica La buona sorte, però, in questa storia non sembra comparire mai. Il 21 marzo del 1994 su Repubblica i giornalisti Bolzoni e D’Avanzo pubblicano i contenuti del verbale di Cancemi. Dalle dichiarazioni del pentito è passato un mese esatto, mentre alle elezioni politiche mancano solo sette giorni. Boccassini sostiene di essere rimasta “sconcertata e annichilita quando, solo pochi giorni dopo, l’effetto sorpresa su cui molto contavamo venne spazzato via” da quell’articolo. “Rimasi sgomenta – insiste – non solo per il vantaggio che i mafiosi avrebbero acquisito su di noi, ma soprattutto perché – data la delicatezza dei temi trattati – quelle dodici pagine di verbale d’interrogatorio di Cancemi non erano state fotocopiate né consegnate a nessuno, nemmeno alle forze dell’ordine con cui operavo. Gli stessi colleghi di Caltanissetta non ne avevano voluto una copia e l’originale era chiuso nella cassaforte del mio ufficio. Avevo avuto cura di non riportare brani delle dichiarazioni del collaboratore nemmeno nella delega alla polizia giudiziaria per attivare l’azione investigativa. Per farla breve, oltre che nella mia cassaforte, copia di quel verbale era stata trasmessa soltanto alle due procure, Palermo e Firenze, che indagavano sulle stragi”. Eppure, prosegue il magistrato, “dalla lettura dell’articolo di Repubblica appariva chiaro – soprattutto se si conoscevano le dichiarazioni verbalizzate e il contenuto della delega alla polizia giudiziaria – che i giornalisti erano in possesso di entrambi i documenti, o quanto meno li avevano letti. Ma come era stato possibile? Chi aveva aperto una falla nell’assoluta riservatezza di quella delicatissima investigazione?”.

Identikit di una fonte confidenziale – Domande che si sono posti negli anni successivi diversi cronisti e parecchi investigatori. E che Boccassini racconta di avere rivolto più volte allo stesso D’Avanzo, al quale era legata da un rapporto di amicizia. “Anche dopo anni, ho sollecitato Peppe perché mi indicasse la fonte che aveva ispirato e reso possibile la stesura di quel maledetto articolo con il quale aveva vanificato – facendo il suo mestiere, lo so bene – una pista che avrebbe potuto portarci molto lontano. Ma, nonostante la stima e l’amicizia che ci legavano, Peppe ha sempre lasciato cadere il discorso su quell’oscura vicenda, non mi ha mai voluto rivelare alcun dettaglio né indizio”. A un certo punto, però, D’Avanzo decise di raccontare a Boccassini i retroscena di quello scoop. “Proprio pochi giorni prima della sua morte improvvisa (avvenuta il 30 luglio 2011), alla mia ennesima sollecitazione, finalmente mi raccontò cos’era avvenuto diciassette anni prima. Perché si fosse deciso a farlo, sinceramente non lo so, forse oggi lo saprei se la morte non se lo fosse portato via. Ma quella fu l’ultima volta che lo vidi. Eravamo a casa mia, seduti sui divani uno di fronte all’altra. Sul tavolo le mie sigarette, i suoi sigari e il suo bicchiere di whisky con il ghiaccio”. A questo punto Boccassini riporta quanto sostiene di aver saputo dal giornalista: ma lo fa omettendo i nomi. “In una tiepida notte romana del marzo 1994 – scrive – era squillato il telefono di casa D’Avanzo. Peppe aveva risposto e, con suo grande stupore, aveva sentito dall’altra parte una voce che ben conosceva ma che aveva qualcosa di inusuale. Il tono era basso, grave e anche l’ora della telefonata era insolita. Ma ancora più stupefacente era stata la richiesta ricevuta: ‘Peppe, vieni subito da me. Devo parlarti di una cosa importante’. Impossibile dire di no. D’Avanzo era uscito in fretta da casa, era salito su un taxi e dieci minuti dopo suonava all’appartamento. L’uomo – ricordò Peppe – era scosso, turbato, ‘aveva gli occhi lucidi, che testimoniavano una sorta di disperazione mista a paura che mi ha colto di sorpresa’. D’Avanzo proprio non si aspettava né sapeva spiegarsi una tale agitazione in una persona nota a tutti per l’aplomb, la razionalità, l’estrema freddezza anche nei frangenti più delicati e pericolosi, con una sperimentata capacità di controllare le emozioni: ‘Eppure era lì, proprio davanti a me, con le lacrime agli occhi e delle carte in mano. Ne ho letto velocemente il contenuto e mi sono appuntato qualche frase. Non mi ha lasciato nulla in mano e me ne sono andato subito dopo, senza parole”. Anche senza fare nomi, però, nel racconto di Boccassini sono presenti alcuni elementi che possono far risalire all’identità della fonte: si tratta con tutta probabilità di un inquirente che lavorava – o aveva rapporti investigativi – con le procure di Palermo o Firenze. Una persona nota per la sua freddezza che abitava a Roma, a poca distanza – dieci minuti in taxi – da casa D’Avanzo. Di chi si tratta? L’ex magistrata non lo dice, ma lancia una sorta di messaggio all’ignoto personaggio. “Non c’è dubbio che la persona che si era rivolta a Peppe era consapevole del danno che sarebbe derivato alle indagini dalla pubblicazione del verbale di Cancemi, né ho mai dubitato della genuinità del racconto di D’Avanzo, uomo e professionista non incline all’esagerazione o addirittura all’invenzione. Niente nomi, perché Peppe non c’è più e perché il suo interlocutore mi conosce bene. Forse sarebbe importante per tutti se volesse confrontarsi sui motivi che lo hanno spinto ad agire in quel modo”.

L’emissario del Nord e la soffiata: misteri che resistono da 25 anni – Di sicuro c’è solo che l’effetto dell’articolo fu quello di mettere in allarme Di Napoli: l’uomo tenuto sotto controllo dai carabinieri si volatilizzò nel nulla. Rimase per sempre avvolta nel mistero l’identità di questo “emissario del nord” che, a dire di Cancemi, faceva periodicamente visita al boss di Malaspina per consegnare denaro proveniente da Milano. Soldi che, sempre secondo il pentito, erano poi destinati a Cosa nostra. Quel filone d’indagine, prosegue Boccassini, “si inaridì in poco tempo, proprio negli stessi primi giorni del 1994 in cui lo scenario politico e giudiziario del Paese veniva attraversato da eventi di grande importanza”. Nonostante le rivelazioni di Repubblica, infatti, Forza Italia stravinse comunque le elezioni politiche e andò al governo del Paese. Le dichiarazioni di Cancemi, invece, entrarono nel processo a Dell’Utri per concorso esterno a Cosa nostra. Come è scritto anche nella sentenza della Cassazione, che nel 2014 ha reso definitivi i 7 anni di carcere per l’ex senatore, sin dal primo grado quelle rivelazioni furono “ritenute complessivamente prive di un’autonoma significatività probatoria“: vuol dire che essenzialmente le parole di Cancemi sono state valutate dai magistrati solo se collegate con tutta un’altra serie di dichiarazioni di altri pentiti. Prese singolarmente, invece, non bastano per essere considerate un elemento probatorio. Il motivo è da ricercare nel fatto che Cancemi parla de relato: racconta cose sapute da Ganci, da Riina, da Mangano. E anche quando parla del denaro ricevuto da Di Napoli, non c’era alcuna prova a riscontrare il suo racconto. A quello serviva il servizio di pedinamento dei carabinieri: sarebbe bastato filmare la consegna del denaro a Di Napoli per provare le dichiarazioni di Cancemi. Senza considerare che così sarebbe stata svelata l’identità del misterioso “emissario del nord“. Il cui nome, invece, è ancora oggi sconosciuto. Come quello della fonte che bruciò quell’indagine, del resto.

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