Affrontare la Frontiera. Ma non con lo spirito della conquista colonizzatrice, bensì con la rassegnazione di un’impresa senza senso, interpretata come un servizio a una nazione in piena guerra fratricida incosciente del proprio sbandamento. Lontanissimo formalmente dal blasonato Civil War di recente uscita nelle sale, I Dannati di Roberto Minervini è ambientato nell’omonimo conflitto ma che realmente esplose tra gli States (non) Uniti d’America tra il 1861 e il 1865, precisamente nell’inverno 1862. Al centro del film applaudito oggi al Festival di Cannes nel concorso di Un Certain Regard – l’unico firmato da un autore italiano benché da anni residente negli USA – è una manciata di soldati nordisti volontari inviati al presidio dei territori dell’allora inesplorato e molto wild West. I loro volti e corpi, però, distano anni luce dall’iconografia rampante ed eroica hollywoodiana: trattasi infatti di uomini rovinati dalla guerra, a prescindere dalla loro età, provenienza, principi spirituali o fede religiosa.
A guardarli fin dalle prime inquadrature, come sempre condotte da Minervini con uno sguardo di meticoloso realismo benché calato in un film di finzione (la sua cifra del “documentario di creazione” è rimasta indenne) si scorge immediatamente il loro senso di emarginazione, di intima malinconia, profuso di quella “idleness” che tanto bene in inglese traduce l’inutilità circolare, il non-senso del tutto. Del resto Minervini, qui al suo sesto lungometraggio, non si è mai sottratto da un cinema ricco di profondità tematica oltre che di audacia formale; in questo caso sotto accusa è la follia di ogni guerra che travolge gli esseri umani riducendoli a dei “reduci” sotto vari aspetti, una sopravvivenza psico-fisico-spirituale che lascia ferite indelebili. I Dannati, che meglio sarebbe chiamare “condannati”, intuiscono il loro destino di abbandono dal mondo: calati in territori ostili, spesso congelati nella neve senza idoneo equipaggiamento, corrono il rischio di agguati dal nemico, sono insomma sottoposti ed esposti a morte quasi certa alla stregua di presiedere una trincea.
Quindi, per quanto l’opera sia in costume e connotata a uno spazio/tempo della Storia ben definito, essa vuole assurgere al simbolico eterno, a quella “wasteland” di matrice elliottiana che supera il luogo fisico per indicare in realtà la miseria umana quando sceglie l’auto-distruzione bellica. Il vecchio dai lunghi capelli e il volto scavato dal tempo accompagnato dai suoi due figli ancora candidi, l’ex eroico senza fede ma che crede nella fratellanza, il coraggioso che finge di sperare: sono tutti individui di una comunità dal destino segnato, e non casualmente nel paradosso di un Paese che ha costruito sulla conquista – e quindi sull’annientamento degli abitanti nativi preesistenti – la propria identità. Minervini li osserva con la piétas adatta alla grande tragedia classica, uomini votati al Fato che non comprendono (forse) o se lo fanno non vi si oppongono anche quando conversano tra loro davanti a un esiguo fuoco nel tentativo di dare un senso a quanto stanno sperimentando.
Per quanto il film viaggi “in altezza e profondità” sia formale che appunto tematica, purtroppo manifesta nel suo procedere una certa fatica ritmica che, se può rispondere a coerenza con il racconto messo in scena, non ne sostiene la fluidità narrativa. Una narrazione che si appesantisce ulteriormente quando la scrittura dei dialoghi si impregna di retorica pseudo-filosofica, per quanto si capisca perfettamente l’ottima intenzione sottostante il progetto. Coprodotto da Italia-USA-Belgio, I Dannati è nelle sale per Lucky Red da giovedì 16 maggio.