di Roberto Iannuzzi *

La visita europea del presidente cinese Xi Jinping ha messo in evidenza, qualora ve ne fosse bisogno, la posta in gioco fra Cina e Occidente: il legame tra Mosca e Pechino da un lato, e la potenza economica cinese, con cui Usa ed Europa hanno crescenti difficoltà a competere, dall’altro. Il viaggio di Xi è stato denso di significati simbolici, dalla celebrazione dei sessant’anni di relazioni diplomatiche fra Pechino e Parigi, all’arrivo del leader cinese in Serbia in coincidenza con il 25° anniversario del bombardamento americano dell’ambasciata cinese a Belgrado. Ultima tappa del viaggio è stata l’Ungheria, membro europeo chiave della Belt and Road Initiative, la via della seta cinese tanto osteggiata da Washington.

Minimo comun denominatore del tour di Xi è la visione cinese di un’Europa maggiormente indipendente dagli Usa e più aperta alla Cina. In questa visione la Francia occupa un posto singolare.

Nel 1964, quello di Charles de Gaulle fu il primo governo occidentale a riconoscere la Repubblica Popolare Cinese. Pechino ha sempre apprezzato l’idea gaullista di un’Europa autonoma, riproposta sotto altra veste dal presidente Emmanuel Macron con il suo progetto di “autonomia strategica” europea. Un sogno ridimensionato dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, allorché – come ha affermato recentemente Zhang Jian, vicepresidente del CICIR (China Institutes of Contemporary International Relations) – “gli eurofili [guidati dalla Francia] hanno perso il loro potere, mentre gli atlantisti hanno avuto la meglio”. Secondo Jian, lo scivolamento europeo verso le posizioni americane è un cambiamento “strutturale”, ma Pechino continua a considerare Parigi come un interlocutore privilegiato, in quanto possibile promotore di un’Europa meno subordinata a Washington.

Questa speranza è stata in parte delusa dallo stesso Macron, e dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen (appositamente invitata a Parigi dal presidente francese per veicolare un messaggio di “unità europea”), i quali hanno chiesto a Xi di garantire scambi commerciali più bilanciati con l’Europa e di impiegare la sua influenza sulla Russia per porre fine al conflitto ucraino. Usando la parola “sovracapacità”, von der Leyen ha fatto eco al segretario al Tesoro Usa, Janet Yellen, che all’inizio di aprile aveva accusato Pechino di inondare i mercati mondiali con prodotti cinesi “artificialmente economici”, dalle auto elettriche ai pannelli solari, rendendo difficile a Usa ed Europa rilanciare i propri settori manifatturieri nel campo dell’“energia pulita”.

Ma ciò che Yellen e von der Leyen definiscono “sovracapacità” non è altro che la maggiore competitività delle industrie cinesi, mentre quelle europee, in particolare, sono state costrette a subire un’impennata dei costi dovuta al taglio delle importazioni energetiche russe. Il modello economico cinese sta assistendo a una nuova trasformazione, da una crescita alimentata dai progetti infrastrutturali ad una sostenuta dalle tecnologie di ultima generazione e dall’intelligenza artificiale, che sta ulteriormente cambiando il volto della base produttiva del paese.

A parte gli Usa, la Cina è l’unico Stato a poter vantare una propria “sovranità tecnologica e digitale”. Di fronte all’ascesa cinese, dei Brics e di un mondo multipolare, Washington ha reagito in maniera aggressiva, usando l’egemonia del dollaro come strumento coercitivo, e procedendo a un progressivo accerchiamento militare del rivale cinese nel Pacifico.

Il ricorso americano sempre più massiccio all’arma delle sanzioni si è però rivelato controproducente, spingendo molti paesi non occidentali a cercare di diversificare le proprie riserve accelerando così un processo globale di dedollarizzazione. La richiesta del segretario di Stato, Antony Blinken, in occasione della sua recente visita a Pechino, che la Cina smetta di vendere a Mosca semiconduttori ed altri prodotti “a doppio uso” che la Russia impiegherebbe nello sforzo bellico contro Kiev, appare quantomeno velleitaria alla luce del pacchetto di aiuti militari appena approvato dal Congresso a favore dell’Ucraina, e delle alleanze che Washington sta rafforzando con Giappone, Corea del Sud e Filippine con l’evidente intento di isolare Pechino.

La Cina è consapevole del fatto che, se Washington dovesse sbarazzarsi del presidente russo Putin, passerebbe a occuparsi direttamente di quella che l’intelligence Usa definisce da tempo la “minaccia cinese”. “Gli Stati Uniti continuano ad avanzare accuse infondate sui normali scambi commerciali ed economici tra Cina e Russia, mentre approvano una legge che prevede ingenti aiuti all’Ucraina. Questo è semplicemente ipocrita”, aveva dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri cinese in vista dell’imminente visita di Blinken. Altrettanto ipocrite alle orecchie dei cinesi suonano le parole pronunciate dallo stesso Blinken prima della sua partenza per Pechino, secondo cui la Cina sarebbe colpevole di “genocidio e crimini contro l’umanità” nei confronti degli uiguri, mentre Washington ha alimentato con un incessante flusso di armi lo sterminio condotto da Israele a Gaza.

Mentre l’amministrazione Biden continua a investire risorse nel proprio sistema di alleanze militari nel Pacifico, oltre che nel conflitto di Gaza e in quello ucraino, Pechino sembra concentrata soprattutto sulla sfida economica e tecnologica, e la sta vincendo.

* Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017).
Twitter: @riannuzziGPC
https://robertoiannuzzi.substack.com/

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