Questa non è una storia di “denunce e contro denunce e divieti” come riportano alcuni quotidiani. E’ una vicenda nella quale sarà opportuno fare chiarezza chiedendoci e se non sia l’ennesima cronaca di morte annunciata.

Lavinia Limido, oggi ricoverata con gravissimi sfregi al volto e un taglio alla carotide alla quale è sopravvissuta, aveva chiesto aiuto allo Stato italiano. L’ha protetta il padre, Fabio Limido, morendo a 71 anni, sotto i colpi dell’ex genero, Marco Manfrinati. E’ morto senza sapere se avesse salvato la figlia. Che cosa è accaduto a Varese?

In base a quanto riportato dai cronisti di diverse testate, il calvario di questa donna e della sua famiglia durava da tempo. Lavinia Limido era scappata il 2 luglio 2022 da casa e si era nascosta fuori provincia per il terrore di essere aggredita e uccisa. Aveva fatto ciò che era un suo diritto, proteggersi ma che era anche un suo dovere, proteggere il figlio nato nel 2021. Aveva denunciato cogliendo l’invito che viene rivolto alle donne durante le infinite passerelle del 25 novembre, accompagnate dai proclami, dai manifesti, dalle sollecitazioni e ammonimenti che tante magistrate, politici, opinionisti dell’ultima ora, declamano dopo che una donna è stata uccisa: “Abbiate coraggio: denunciate, denunciate, denunciate!”.

Poi come tante donne, aveva atteso convivendo con la paura e aspettando quelle risposte celeri ed efficaci che lo Stato italiano deve in nome della Costituzione, del Codice penale, della Convenzione di Istanbul e del Codice Rosso, e più banalmente per umanità.

Una risposta che (ne siamo testimoni tutti i giorni nei centri antiviolenza) troppe volte arriva con lentezza, fermandosi davanti agli ostacoli del pregiudizio misogino, degli stereotipi di uomini violenti che vengono visti come poveri padri ai quali perfide simulatrici vogliono sottrarre la “roba” ovvero: se stesse, la casa, soldi e figli. Ostacoli fatti anche da mancanza di organico della magistratura, delle revoche degli ordini di protezione, delle archiviazioni, della confusione tra conflitto e violenza, della incapacità di riconoscere la gravità delle situazioni e di saper valutare adeguatamente il rischio.

E’ così che avvengono le cronache di morti annunciate. Come quella di Gabriela Trafandir, 47 anni, e della figlia Renata di appena 22 anni, assassinate da Salvatore Montefusco a fucilate dopo tre denunce sulle quali pendeva la richiesta di archiviazione della Procura di Modena. O come quella di Lidija Miljkovic assassinata barbaramente a Vicenza da Zlatan Vasiljevic, un uomo pericoloso che però, dopo una breve frequentazione ad un Cam – centro ascolto maltrattanti, aveva ottenuto l’affido condiviso dal tribunale di Vicenza. Lidija avrebbe dovuto relazionarsi con un uomo violento, ogni giorno, per la gestione dei figli. E sarebbe stata esposta a continue prevaricazioni, minacce, violenze perché quello che lo Stato italiano impone oggi nei propri tribunali in nome della “bigenitorialtà” è la sottomissione delle madri che denunciano violenze. Resiste la convinzione che un uomo violento possa essere un buon padre, ovvero che un uomo che minaccia, aggredisce, stalkerizza la ex moglie, possa essere per un figlio un buon modello educativo. Qualcuno da imitare per la tradizione della famiglia ovvero la trasmissione intergenerazionale della violenza. In fondo siamo un Paese che conserva tutto, anche la violenza contro le donne e i bambini. Soprattutto quella.

Nei tribunali italiani oggi si scontrano due culture: la cultura dei diritti delle donne che la Cedaw e la Convenzione di Istanbul vogliono garantire in nome del contrasto delle discriminazioni e della libertà delle donne di vivere libere dalla violenza e la cultura patriarcale. Quest’ultima attraverso le prassi dell’incarico alle Ctu, aggira tutte le norme a tutela delle donne vittime di violenza e dei minori, e impone la bigenitorialità anche in presenza di uomini violenti, narcisisti maligni, cocainomani, alcolisti, stalker e maltrattanti. La Cedu ha condannato l’Italia il 10 novembre del 2022 per aver costretto una donna a portare figli a incontri protetti con un uomo pericoloso. E’ la cultura che si rafforza con la propaganda delle “false accuse” che mette a tacere le donne accusandole di essere madri malevole che vogliono allontanare i padri dai figli. E’ sempre quella cultura convinta che gli uomini siano violenti perché le donne li provocano e che non sa riconoscere il rischio e la pericolosità soprattutto quando l’autore di violenza è italiano e indossa la giacca e la cravatta.

La resistenza del patriarcato e l’imposizione della centralità del padre, qualunque esso sia, acceca la capacità di un giudizio libero da parte della magistratura civile e di valutazioni corrette da parte di psichiatri e psicologi prestati alla psicologia giuridica con le loro ideologie e i loro pregiudizi misogini. Se andiamo indietro nel tempo, quando non c’era la legge sul femminicidio e il codice rosso, dobbiamo ricordare la morte di Marianna Manduca, uccisa il 3 ottobre del 2007, dopo 12 denunce, tutte archiviate. I figli erano stati affidati all’uomo violento che poi la uccise. Le leggi sono arrivate ma restano troppo spesso promesse non mantenute e i corpi delle donne ammazzate o martoriate sono lì a testimoniare la persistenza persecutoria nelle famiglie e nei luoghi istituzionali della cultura patriarcale.

Nel caso di Lavinia Limido è doveroso capire che cosa sia accaduto.

Vediamo la cronaca de Il Giorno: “Il 2 luglio 2022 Lavinia scappa e denuncia per maltrattamenti Marco Manfrinati e chiede un divieto di avvinamento. Il 5 settembre, dopo il parere favorevole del pm Flavia Salvatore, il gip di Busto Arsizio, Stefano Colombo, applica il diviero di avvicinamento. Il 25 ottobre il procuratore capo Carlo Nocerino chiede la revoca del provvedimento in base alle indagini svolte la versione delle persone offese non è credibile. Il 2 novembre, il gip Tiziana Landoni firma la revoca. Il 7 novembre la Procura di Busto Arsizio chiede che sia archiviata la denuncia-querela per maltrattamenti in famiglia. L’avvocato Amborsetti si oppone. L’udienza ci sarà il 28 maggio”. Il calvario continua. Nel 2023 Manfrinati sfonda la recinzione della villa dei suoceri, minaccia su Whatsapp, gli viene trovato un martello in auto. Il 19 giugno arriva dalla gip di Varese Stefania Pepe, un’ordinanza di divieto di avvicinamento per stalking (la pm Giulia Grillo ne aveva chiesto l’arresto) poi, il 20 ottobre arriva il rinvio a giudizio per stalking di Manfrinati, l’udienza viene fissata per l’8 aprile 2024. Marta Criscuolo, la madre di Lavinia Limido ha dichiarato durante un’intervista televisiva che Marco Manfrinati si sentiva legittimato ad attuare i comportamenti denunciati, comprese minacce di morte e si è chiesta come donne senza possibilità economiche possano difendersi in situazioni simili.

In corso c’era una Ctu – consulenza tecnica d’ufficio sulla quale ci sono notizie discordanti. Durante la consulenza era stata decisa la sospensione delle visite padre figlio in attesa della conclusione dei procedimenti penali ma era anche in corso la valutazione di procedere con le visite vigilate. Un’altra Ctu, riporta sempre Il Giorno, aveva valutato Marco Manfrinati come “un buon padre”.

Lavinia Limido e la sua famiglia hanno vissuto per due anni come persone braccate. Hanno resistito alle richieste di archiviazioni e alle consulenze tecniche d’ufficio. Il padre è stato l’unico ostacolo che si è frapposto tra la violenza di Marco Manfrinati e la figlia. Ora sono credibili.

@nadiesdaa

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