Nel 1963 usciva Le mani sulla città di Francesco Rosi, film di denuncia della corruzione e della speculazione edilizia nell’Italia degli Anni Sessanta. La pellicola si chiudeva con la ripresa aerea di una distesa di palazzoni, frutto del patto criminale tra potere politico ed economico. Ma, soprattutto, con una didascalia assai significativa: “I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”. Rosi voleva sottolineare che, più che i personaggi e più che il caso specifico, a contare fosse il sistema che “li produce”.

A partire da questa lezione, proviamo a mettere nero su bianco alcune riflessioni relative all’ultimo caso di corruzione di dominio pubblico, quello martedì 7 maggio 2024 ha portato all’arresto del Presidente della Regione Liguria Toti.

A comandare non è la “casta”, ma l’intreccio di potere politico, economico e mediatico

A 24 ore dall’operazione della Guardia di Finanza, i titoli dei principali quotidiani sono esemplificativi della lettura che ne dà il potere mediatico. Il Corriere della Sera titolava: “Arrestato Toti, choc in Liguria”; La Repubblica, “Tangenti, crolla il sistema Toti”; La Stampa, “Toti arrestato, Nordio contro i pm”. Anche i giornali dell’ultradestra non hanno potuto evitare di aprire con questa notizia. Libero, “Arrestato Toti. Quello che non torna e chi ci guadagna”; Il Tempo, “Tutto come al solito. Toti ai domiciliari a 30 giorni dal voto”. Lasciando circolare l’idea che la magistratura avrebbe scatenato una “giustizia a orologeria” per colpire le destre in vista delle elezioni dell’8 e 9 giugno.

A prescindere dall’orientamento, tutti i media concentrano l’attenzione sul Presidente della Regione Liguria. Facendo così l’esatto opposto di quanto “suggeriva” Rosi: la personalizzazione fa sparire la realtà sociale e ambientale che ha “dato vita” a quel personaggio. Guardi l’albero e rischi di non vedere la foresta. Guardi Toti, incarnazione del potere politico in Liguria, e rischi di non vedere il potere economico e quello mediatico.

A leggere le 654 pagine dell’ordinanza del gip Faggioni, invece, il potere politico non emerge né come unico attore in campo né come apice di una piramide, ma come uno dei tre vertici di un triangolo, insieme a potere economico (Spinelli e la sua impresa logistica nel porto di Genova; Moncada ed Esselunga; Signorini, manager pubblico a capo della più grande Autorità Portuale d’Italia, quella del capoluogo ligure) e a quello mediatico (nell’inchiesta è indagato anche Maurizio Rossi, editore di Primocanale, principale emittente TV in Liguria).

Non c’è alcun soggetto che costringa l’altro a tenere comportamenti delittuosi. C’è un rapporto di complicità, non di subalternità. Il motore della dinamica corruttiva è il potere economico. È questo il soggetto che fa partire la macchina, con le richieste di favori, dell’intermediazione della politica e delle coperture mediatiche. La molla è l’arricchimento, l’ottenimento del maggior grado di potere economico possibile. Sia per goderne ed eventualmente dissiparlo – i comportamenti di Signorini sono quelli più interessanti dal punto di vista del costume – sia per accumularlo, possibilmente sbaragliando eventuale concorrenti.

Il capitalismo italiano vive e prospera solo all’ombra del potere dello Stato

A questo punto emerge un altro tratto tipico del sistema: il capitale privato vive e prospera all’ombra dei pubblici poteri. Nelle telefonate intercettate, gli imprenditori coinvolti nella vicenda giudiziaria ligure fanno richiesta, tanto a Toti quanto a Signorini, di un intervento diretto, rapido e risolutivo, a loro vantaggio. Eccola la corruzione: nell’ambito della concorrenza capitalistica è spesso considerata la via più facile e veloce per garantirsi quote di mercato e accrescere i profitti. Cioè l’istanza ultima di ogni impresa perché, come diceva Nottola, uno dei personaggi de Le mani sulla città, “il denaro non è un’automobile che la tieni ferma in un garage, è come un cavallo, deve mangiare tutti i giorni”.

La corruzione, infatti, non è connaturata a una presunta “natura umana” che ci vorrebbe tutti “ladri”, né dovuta alla scarsa moralità dei soggetti coinvolti (presso i quali certo non abbonda). La corruzione non è semplicemente fatto ricorrente nella storia italiana, ma ne è nervatura onnipresente, che si parli dell’Italia monarchica, di quella fascista, di quella repubblicana. Perché, più che alla morale dei tempi o al regime politico, è legata al sistema economico e di potere.

Né, tanto meno, la corruzione è caratteristica di una sola parte politica o di specifici territori. Puglia, Sicilia, Piemonte: sono le tre Regioni assurte prima della Liguria agli onori delle cronache giudiziarie e politiche per casi di corruzione che hanno svelato una trama di potere che sui territori ha coinvolto anche esponenti politici di primo piano. Di destra in Sicilia e ora in Liguria; di “sinistra” in Puglia e Piemonte. Due Regioni del Nord e due del Sud. La corruzione non solo è fenomeno trasversale ai due principali poli politici italiani, ma è anche tratto “unitario” delle classi dominanti settentrionali e meridionali.

Nell’ordinanza del gip affiora anche che uno dei presunti corruttori, l’imprenditore Mauro Vianello – che avrebbe effettuato versamenti in denaro a Signorini per assicurarsi la nomina in alcuni CdA e che comunque avrebbe ottenuto l’aumento delle tariffe da 23€ a 26€ l’ora per la sua ditta antincendio – sarebbe vicino al Pd genovese. Circostanza non smentita dal segretario regionale Pd, Davide Natale. Elemento indicativo perché conferma che di fronte alla possibilità di affari contano più l’appartenenza di classe e al mondo degli affari che le apparenti differenze ideologiche.

Cambiano dunque i personaggi, i partiti politici, i nomi delle imprese e pure quelli delle organizzazioni criminali implicate in alcuni di questi casi giudiziarie. Rimane identica, per dirla con Francesco Rosi, “la realtà sociale e ambientale che li produce”.

Per sconfiggere la corruzione serve modificare la realtà che l’alimenta

Lo scrivono bene i portuali di Genova afferenti al Coordinamento Porti Usb: “Ormai sono 4 o 5 i grandi gruppi terminalisti che si contendono le banchine in tutti i porti italiani. Chi è in grado di esercitare maggiori pressioni (o pagare mazzette?) ottiene ciò che vuole. […] C’è un solo modo per evitare tutto ciò favorendo il bene pubblico e non il profitto di pochi soggetti privati. Tornare all’utilizzo delle banchine pubbliche. Le concessioni devono essere l’eccezione (così com’era in passato) e non la regola”. È bene tenere presente le loro parole perché la tesi prevalente è che la corruzione – così per come emerge da quest’ennesima inchiesta – si combatterebbe con più trasparenza, con più competizione, più “vero mercato”.

Invece no. Non è con più capitalismo nella sua versione liberista che si può affrontare la corruzione. Quello, semmai, è il problema, non certo la soluzione.

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