C’è una coincidenza non casuale tra gli Stati che si sono dotati dell’arma atomica e la presenza sul proprio territorio di reattori nucleari civili: il ciclo dell’uranio militare è integrato col funzionamento di centrali in cui la fissione è tenuta sotto controllo con le apparecchiature e i software più sofisticati per ridurre il rischio di incidenti catastrofici. Militare e civile si sono sviluppati di pari passo in tempo di pace, ma in tempi di guerra permanente, il rilancio del nucleare civile deve prendere in considerazione risvolti che già si sono rivelati inquietanti.

Nessuna delle potenze in campo nella “guerra grande” potrebbe impunemente annunciare di voler risolvere lo scontro con il ricorso all’impiego dell’ordigno nucleare. Anche se tra di loro la sola Cina esclude l’uso del “first strike” – un “primo colpo” – con un attacco preventivo e a sorpresa con l’impiego dell’atomica, è pur vero che sia in Ucraina che in Israele e Iran esistono grandi impianti nucleari civili, la cui fusione e dispersione catastrofica potrebbe essere provocata da un loro bombardamento con potenti e mirate armi convenzionali. Un first strike dissimulato, a cui seguirebbe una risposta annientatrice su scala globale: un Armadeggon imprevisto.

Ira Helfand, noto medico antinuclearista dell’Università del Massachusetts, ritiene che più volte il Pentagono abbia simulato l’uso di armi nucleari tattiche per innescare a sorpresa una guerra nucleare, che finirebbe col risultare totale e che un procedimento simile sia stato preso in conto anche dai comandi russi e dal gabinetto di guerra di Netanyahu, oltre che dall’Iran. Mai, come nella fase attuale, siamo stati vicini a questa spaventosa eventualità, ma, per buona sorte, abbiamo solo sfiorato ipotesi tanto esiziali per l’umanità.

Eppure, nella constatazione che le guerre in corso non possano finire con la vittoria assoluta di una parte e l’annientamento dell’altra, sta prendendo piede la tentazione di agitare in modo indiretto la minaccia atomica, attraverso una pressione inusitata sui reattori e gli impianti civili, portandoci, alla fine, dentro vicoli ciechi strategici, che avrebbero egualmente, come conseguenza, l’innesco di uno scambio di testate nucleari in un conflitto globale.

Ho trattato nel post precedente all’attuale la questione degli insensati attacchi – attribuiti ora all’una ora all’altra parte in conflitto – alla centrale ucraina di Zaporizhzhia, la più potente nel nostro continente. Pur non essendo più in funzione i suoi sei reattori, tutta l’enorme carica di materiale radioattivo contenuto nei noccioli e nei depositi potrebbe essere rilasciata e dispersa a seguito del lancio di potenti testate montate su droni o bombardamenti penetranti con esplosivo tradizionale.

E’ la prima volta nella storia che una guerra con armi avanzatissime si sta svolgendo in presenza di impianti e infrastrutture nucleari, ponendoci di fronte ad un nuovo tipo di rischio per la sicurezza. Nelle ultime settimane le strutture ausiliarie della centrale sono state colpite e, se anche a partire dal 13 aprile, tutti e sei i reattori erano in arresto a freddo, c’è ancora la possibilità di un grave incidente dovuto ad un sabotaggio intenzionale volto a causare un rilascio radioattivo. Questo è il grido d’allarme lanciato all’Onu dal segretario dell’Aiea Daniel Grossi.

L’analogia con Chernobyl è tutt’altro che campata in aria: anzi, date le condizioni feroci di combattimento, l’inadeguatezza dei soccorsi farebbe paradossalmente parte – da qualunque dei due confliggenti fosse innescata – di un’azione della più atroce guerra nucleare, e costituirebbe la premessa per un “first strike” dissimulato. Non accadrà, ma non viviamo in un’epoca usuale.

Anche nell’altra “guerra grande” in corso in Medio Oriente, l’attacco israeliano a Isfahan – sede di impianti nucleari iraniani – per quanto a livello dimostrativo, ma assai allusivo nel suo significato, segnala una strategia bellica che non avevamo mai messo in conto come aspetto ordinario: minacciare un incidente ad un sito nucleare, con tutto il corollario di accessori attinenti al ciclo di arricchimento del materiale fissile.

Ciò comporterebbe effetti terribili, in quanto aumenterebbe considerevolmente la probabilità di una risposta di ritorsione da parte di Teheran, che colpirebbe luoghi sensibili nel territorio israeliano, possibilmente estendendosi agli interessi americani e giordani nella regione, oltre a fornire agli ayatollah la motivazione per progredire verso lo sviluppo di bombe atomiche.

Non possiamo dimenticare che la densità energetica di cui sono dotati i reattori civili, sebbene adeguatamente moderati durante il loro funzionamento e controllati lungo il loro ciclo di vita, è di un ordine di grandezza non molto inferiore da quello delle testate nucleari e che, se venisse sprigionata simultaneamente in un’azione di guerra, innescherebbe un effetto catastrofico.

A maggior ragione, quindi, e a partire da queste realtà sotto i nostri occhi, evapora definitivamente il concetto di “guerra giusta”, dato che il suo esito concreto risulterebbe nell’annientamento non tanto del nemico, ma, anche a seguito di inevitabili ritorsioni, dell’esistenza su larga scala dell’intero vivente. Nessuno può plausibilmente trarre utilità o ottenere alcun vantaggio militare o politico da attacchi contro gli impianti nucleari: solo una de-escalation di fatto e per via diplomatica può tener testa al pericolo che incombe.

Come si giustifica allora l’invio di armi sempre più potenti e precise ai contendenti “amici” da parte di un Occidente che mantiene pressoché secretate centinaia di testate perfino a Ghedi e Aviano? E come potrebbe la Russia pretendere di riavviare per sé la centrale nucleare ucraina di Zaporizhzhia, resa insicura dalle azioni di guerra e di conquista, senza un piano di manutenzione per il 2024 e, per di più, minata dalla mancanza di acqua di raffreddamento del bacino idrico ormai esaurito posto dietro la diga di Kakhovka sfondata a colpi di mortaio?

Ali Alkis sul Bulletin of the Atomic Scientists (newsletter@thebulletin.org del 17 aprile) lamenta che l’Aiea terrà la sua Conferenza internazionale sulla sicurezza nucleare a maggio per rilanciare il “nuovo nucleare civile”, ma non dedicherà nemmeno una sessione alla protezione degli impianti nucleari nelle zone di conflitto! Non una dimenticanza, ma, temo, un’azione altamente imprevidente.

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