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Addio a Marco Ciatti, restauratore dei grandi capolavori: da Giotto a Caravaggio, Michelangelo, Donatello, Raffaello e Leonardo

L'ex soprintendente dell’Opificio delle pietre dure si è spento sabato 20 aprile all'età di 68 anni. Con lui se n’è andato uno dei punti di riferimento mondiali della storia del restauro di opere d’arte

di Marco Ferri
Addio a Marco Ciatti, restauratore dei grandi capolavori: da Giotto a Caravaggio, Michelangelo, Donatello, Raffaello e Leonardo

È scomparso sabato 20 aprile, all’età di 68 anni Marco Ciatti, già soprintendente dell’Opificio delle pietre dure, che una settimana prima di andare in pensione, nel 2022, concesse una lunga intervista a ilfattoquotidiano.it tracciando un bilancio del suo ultraquarantennale lavoro nei beni culturali e avanzando anche qualche proposta per garantire un futuro più roseo a un istituto come l’OPD, che tutto il mondo ci invidia. Con lui se n’è andato uno dei punti di riferimento mondiali della storia del restauro di opere d’arte.

Uomo buono, di carattere estremamente posato, affabile, dotato di una sottilissima ironia di stampo anglosassone, Ciatti era un eccezionale professionista nel suo campo, capace di trovare o suggerire soluzioni ai problemi insormontabili che spesso si palesano nell’universo del restauro delle opere d’arte. Ma Ciatti sapeva che con un’approfondita analisi diagnostica e uno o più progetti di restauro concepiti da un team di esperti a livello mondiale, potevano tornare a essere ammirate anche le opere più malridotte.

Vere e proprie imprese, come quella iniziata la mattina del 3 ottobre 2003 quando Ciatti fu “trascinato” nel deposito dipinti del Giardino di Boboli, dietro la Grotta del Buontalenti, per fare un sopralluogo al capezzale di un grande dipinto che versava in condizioni disperate: si trattava delle cinque tavole costituenti l’Ultima cena di Giorgio Vasari che il 4 novembre 1966 furono danneggiate dall’alluvione nella Sagrestia della Basilica di Santa Croce.

Le tavole erano coperte di un’uniforme patina color fango che rendeva meno evidenti i tanti sollevamenti del manto pittorico, poiché il supporto ligneo – una volta bagnato dall’acqua dell’Arno e poi asciugato – si era ristretto a tal punto che in molte parti della tavola la pittura non aderiva più allo strato preparatorio steso sul legno, ma anzi presentava dei sollevamenti anche di 12 millimetri. Un record. A 37 anni dall’alluvione, di quell’opera importava ormai a pochi: perfino l’allora soprintendente Antonio Paolucci la considerava ormai perduta.

Quando Ciatti vide le tavole stese su quel tavolo di marmo, si tolse il cappello e con un’espressione tra lo stupito e il dubbioso esclamò: “Ma voi mi chiedete un miracolo”. Ma 13 anni più tardi quel miracolo era avvenuto e il responsabile della sezione restauro pittorico dell’Opificio ne era stato il principale artefice. Durante uno dei tanti incontri, una volta ammise: “Attendere 37 anni per iniziare a restaurare un’opera d’arte può sembrare un’eternità, invece è stato tempo utile per capire ciò che si doveva fare per recuperare il dipinto di Vasari. Nel 1966 certo non avevamo competenze, strumenti e tecniche di oggi. Quindi è stato tempo utile, non sprecato”.

Ciatti ha diretto decine, centinaia di restauri di altre opere d’arte e capolavori. Ad alcuni di questi interventi è rimasto particolarmente affezionato, come quelli alla Croce di Giotto di Santa Maria Novella – “un restauro che pareva infinito”, rivelò – oppure il San Giovanni decollato di Caravaggio che sta a Malta, senza contare che con il restauro della cosiddetta Porta del Paradiso di Ghiberti del Battistero di San Giovanni di Firenze, sono state riscritte le tecniche e le procedure degli interventi sul bronzo dorato.

Ma nel tempo Ciatti è stato responsabile del restauro di opere di un’infinità di autori: da Leonardo da Vinci (Adorazione dei Magi) a Raffaello (Madonna del cardellino), da Botticelli (Compianto sul Cristo morto) a Beato Angelico (Tabernacolo dei Linaioli), da Donatello (Crocifisso di Santa Croce e i Pulpiti di San Lorenzo) a Michelangelo (Dio Fluviale oggi all’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze) tanto per citare i primi nomi che vengono in mente.

Ogni intervento di restauro per Ciatti era considerato “da manuale”, nel senso che riteneva fondamentale lasciare traccia scritta precisa e circostanziata delle varie fasi di ogni intervento, affinché altri colleghi, in tutto il mondo, potessero acquisire le conoscenze del caso in questione.

Chi l’ha conosciuto bene e ha condiviso, da dirigente, innumerevoli interventi di restauro che vedevano impegnato in prima persona Marco Ciatti, è stata Cristina Acidini, già soprintendente per il Polo Museale Fiorentino, ma anche dirigente dell’Opificio per ben due volte tra il 2000 e il 2012; e proprio 12 anni fa Ciatti le subentrò alla guida dell’istituto di restauro dove poi ha concluso la sua carriera.

“A poche ore dalla sua scomparsa – dice Acidini – è difficile credere, e ancora più accettare, che Marco Ciatti non sia più con noi. Lo sapevamo sofferente, in lotta da dieci anni con la malattia, lo sapevamo aggravato; e tuttavia volevamo credere che anche stavolta avrebbe superato il frangente difficile, da combattente discreto e tenace qual era, e che sarebbe ricomparso in qualche incontro culturale, elegante e pacato come sempre. Marco Ciatti ha diviso la sua vita tra la famiglia e la professione – la sua professione di storico dell’arte votato al restauro – portando in ogni campo e in ogni circostanza il suo contributo di dedizione appassionata, competenza a tutta prova, onestà intellettuale e senso di responsabilità”.

Acidini ricorda poi che “nel corso di tutto il mio servizio per i beni culturali e specialmente tra il 2000 e il 2008, durante il mio mandato di soprintendente dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze (dove Marco ha svolto pressoché tutta la sua carriera da funzionario a soprintendente a sua volta), abbiamo lavorato fianco a fianco in interventi innumerevoli che hanno approfondito conoscenze e recuperato capolavori in tutta Italia, portando anche all’estero questo specialistico know how così radicato a Firenze. In ogni progetto, così come nell’attività di docente nella scuola dell’Opificio e nell’università, ha coltivato lo studio, incoraggiato la ricerca, sostenuto l’applicazione dell’unità di metodo contro l’incoerenza e l’approssimazione. Resterà sempre il ricordo prezioso delle sue doti umane, oltre che professionali: la saggezza, la chiarezza, la blanda ironia. Quanto a lui, già ne sentiamo la mancanza”.

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