City-Real è stata una gara unica. E sarebbe banale definirla unica semplicemente perché lo scontro tra le due squadre attualmente più forti al mondo: è già accaduto, accade e accadrà, in fin dei conti la Champions League serve anche a questo. No, l’esegesi della parata di stelle in un momento in cui peraltro se n’è fatto un colpevole abuso attira poco. È semmai l’esser stati capaci di dare un senso a quella parata di stelle e di aver rifuggito il rischio, sempre altissimo, che diventasse accozzaglia buttata lì un tanto al chilo. Sì, in entrambi i casi.

Perché sì, Guardiola ne esce sconfitto: niente treble, niente bis della Champions vinta l’anno scorso in finale (a fatica) contro l’Inter e niente gloria. Ma sarebbe mendace non guardare a un unicum, a qualcosa di assolutamente straordinario: il suo City che riconquista palla un numero imprecisato di volte nella trequarti avversaria non alla cenerentola da polveroso fondo del quarto cassetto dell’urna che si becca ai gironi, ma al Real. E dunque rubare una quantità eccezionale di pallone non a buoni giocatori di periferia, ma a Kroos e poi a Modric, a Vinicius, a Valverde a Bellingham che oggi o domani sarà Pallone d’Oro: gente che attrae il pallone in maniera magnetica e che perderne uno è già un’umiliazione. E a rubare quei palloni e ringhiare e scattare come ossessi sugli avversari non c’era certo un gruppo di stopperacci inglesi old styl, no, ma un Jack Grealish solitamente ritratto come un dandy indolente, un raffinato economista del pallone come Bernardo Silva, due star dai piedi fatati come De Bruyne o Phil Foden. Elementi che solitamente lascerebbero agli altri l’incombenza del recupero palla per ripagare col colpo a effetto, anche nelle economie del calcio ultramoderno. E sì, al netto della sconfitta va dato atto a Guardiola, ancora una volta nell’arco della sua lunga carriera, di aver plasmato un unicum e forse, ancora una volta nell’arco della sua lunga carriera, di aver tracciato una strada.

In semifinale però ci va il Real e ci va Carlo Ancelotti: i suoi hanno tirato meglio i rigori, risultando certo meno spettacolari del City ma attenzione, anche questo è un unicum. Perché sì, se Guardiola è stato capace di plasmare una squadra in grado di tenere il Real praticamente per 115 minuti su 120 nella sua area, è altrettanto vero che di fronte c’è uno che è stato capace di catechizzare i suoi al punto di fargli accettare che sì, è giusto starsene lì a difendere la porta per cento minuti anche se sei la squadra più gloriosa al mondo. Che anche se sei un giovanissimo fenomeno che ha evidentemente ogni bene nel destino puoi star lì a dar calci e prenderli di buon grado, idem se sei un brasiliano tutto finte e calcio bailado, pendendo tutti dalle labbra e dalla grinta di uno cui mancava solo l’armatura e l’elmo con su inciso Dani Carvajal e dalla solita faccia paciosa in panchina. L’unica faccia paciosa in grado di mettere d’accordo un paese intero e persino i palati fini iberici in fatto di pelota che sì, in fin dei conti il catenaccio è bello, utile e desiderabile. Certo, se De Bruyne avesse buttato dentro il suo rigore in movimento e se il City in generale avesse buttato dentro i suoi rigori probabilmente i toni sarebbero stati diversi, con prevedibilissimi “Siamo il Real, non possiamo fare catenaccio”. Ma come per Guardiola, più che il risultato conta il dato per Carletto: ha detto ai suoi, i Modric, i Bellingham, i Valverde, i Rodrigo, i Vinicius che al netto delle coppe vinte, del loro notorio status di campioni indiscutibili quelli lì che avevano di fronte andavano affrontati esattamente in quel modo. E i suoi non hanno battuto ciglio.

Il manifesto di City-Real è per lo più questo: la capacità di due degli allenatori più straordinari degli ultimi trent’anni di chiedere l’impossibile a calciatori cui non si dovrebbe chiedere mai. E ottenerlo.

Articolo Successivo

Italia a un passo dal quinto posto in Champions: i due scenari che darebbero la certezza matematica già stasera

next