Le vicende di questi giorni, a cominciare del soccorso dell’Arabia Saudita a Gerusalemme nell’intercettamento dei 300 missili e droni scagliati dall’Iran contro Israele, appaiono spesso incomprensibili, anche perché buona parte degli analisti da talk show inseguono posizionamenti personali nel sistema di potere legato all’informazione o coltivano il narcisismo del fare il fenomeno “buttandola in cacciara” (nomen omen). Magari, più semplicemente, per la pigrizia di non scostarsi dai sicuri canovacci del luogo comune. Mentre l’antica figura del maître à penser – da Raymond Aron a Bertrand Russell, da Luigi Pintor a Giorgio Bocca – appare in totale via di estinzione.

Ormai impazzano i comunicatori, maestri nell’arte minima della banalità infiocchettata. A prescindere dai banditori (dichiarati o sottotraccia) della propria squadra del cuore – i Mario Sechi e gli Italo Bocchino per Meloni, le Nadia Urbinati, i Massimo Giannini e le Lilli Gruber per il Pd (seppure gli ultimi due in riposizionamento) – è sempre un rifuggire dall’esercizio da ápoti (quelli che non se la bevono) che un grande politologo fuori dal coro – Alessandro Pizzorno – definiva “ermeneutica del sospetto”. Di certo non lo pratica il cardinale di curia Paolo Mieli, sempre pronto a riequilibrare ogni critica alla pulizia etnica in corso a Gaza con il cerchiobottismo del (certamente orrendo) pogrom operato dai terroristi di Hamas il 7 ottobre 2023. Una vicenda che ha un prologo all’inferno nella pluridecennale creazione di un carcere a cielo aperto per il popolo palestinese.

Soprattutto, in quella che è la vera mossa scatenante del potere, cui ha dato risposta barbarica l’estremismo islamico: bloccare l’operazione avviata l’11 settembre 2020 con i cosiddetti “accordi di Abramo”, di cui i nostri esperti in questioni mediorientali sembrano essersi dimenticati. L’operazione promossa dal pericoloso irresponsabile con lampi di lucida follia – l’ex presidente Donald Trump – con l’accordo tra Emirati Arabi Uniti e Bahrein con Benjamin Netanyahu. Il patto che non ha fondamento in altra questione che non sia il bieco interesse comune tra l’Occidente energivoro e le monarchie petrolifere del Golfo di continuare il reciprocamente vantaggioso interscambio affaristico; liberandosi di tutti gli inciampi, di cui la questione palestinese è aspetto non secondario.

Alla faccia di etica, diritti umani et similia. Il tutto nel quadro di un ridisegno dell’ordine mondiale nel passaggio dall’unilateralismo del dopo-1989 all’attuale competizione tra campi contrapposti, dal globalismo liberistico al protezionismo. Declinato nella guerra mondiale “a pezzi” di cui parla papa Francesco. Un quadro in cui non c’è un Settimo Cavalleggeri che arriva in occorso dei buoni, ma in cui è molto più conveniente per gli addetti ai lavori individuare la parte per cui tifare.

Lo stesso – de minimis – vale per la descrizione del teatro (o dello stadio) in cui si svolge la competizione politica italiana; presunta polarizzata nell’eterna diade destra-sinistra. Quando in realtà – come sostiene da anni Marco Revelli – in campo ci sono solo due destre. Due forze conservatrici, seppure con modalità e intensità differenti. Di certo distinguibili più per riferimenti storici che per pratiche correnti.

In particolare, per la sinistra mutata in destra (e oggi malamente assemblata nel Pd) il vizio d’origine si chiama Terza Via, l’invenzione dei Mazzarini della London School, cui si sono abbeverati i Bill Clinton e i Tony Blair, con a rimorchio i nostri Massimo D’Alema, Romano Prodi e (fuori tempo massimo) Matteo Renzi, che la via per il successo è infischiarsene dell’elettorato storico (rosso-antico) e inseguire il vincitore di questa fase storica (il capitalismo finanziarizzato), assecondandolo con agende politiche destrorse. E chi protesta è un bieco populista.

Evoluzione, in corso da decenni (il testo canonico “Oltre la Destra e la Sinistra” di Anthony Giddens è del 1994) che ha diffuso, nel corpaccione della ex-sinistra, opportunismo e carrierismo; i capibastone e cacicchi che per interesse personale trasformano la carriera politica in mercimonio. E allora è veramente ipocrita l’uso del termine “sciacallo” nei confronti di Conte che vincola ogni possibile accordo con Elly Schlein (pena la perdita di contatto con la sua stessa base) al suo aver portato a termine la pulizia promessa.

Ma le anime belle fanno finta di non capire e propugnano la ripresa di quel campo largo che oggi nascerebbe inevitabilmente zavorrato. Non credibile. Ma che forse potrebbe favorire il ritorno al governo del partito degli affari con i suoi capi-corrente; gli Orlando, i Franceschini, graditi ai signori degli affari. Per cui il simpatico Pierluigi Bersani, nella sua attuale fase di attempata Cassandra, si dimentica persino i propri trascorsi nella palude turandosi il naso. Proprio vero: “realtà è il nome che diamo alle nostre delusioni”.

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