Le cose, di per sé, non posseggono un valore assoluto, intrinseco e immutabile: sono le circostanze, in un assoluto relativismo, a determinarne il valore, gli eventuali pregi, la qualità. Se così è per ogni cosa esistente, finanche per gli esseri animati, lo stesso vale per la musica, che è passata nel giro di poco più di un secolo da essere una tra le arti in assoluto di maggior valore, una tra le più rare, tra le più pregiate, a quella in assoluto di minor rilievo, di minore importanza. Tutto determinato dalle circostanze, che in ambito artistico e culturale sono decise in buona parte dalla veicolazione dell’idea, dalla distribuzione del prodotto artistico.

Fino alla fine del XIX secolo la musica si trovava solo nei luoghi in cui esisteva realmente, in cui qualcuno la suonava, la eseguiva, la interpretava: che fosse il salotto di una famiglia borghese, una chiesa durante una funzione religiosa o una qualche sala da concerto, il suono non aveva altro mezzo, per essere veicolato, se non quello fisico, reale, tangibile. La discografia, prima nelle sembianze di un cilindro e poi in quelle di un disco, ha praticamente introdotto per la prima volta nella storia il concetto di home entertainment, rendendo la musica, passo dopo passo e non senza i dovuti decenni, un bene a portata di chiunque, a portata di mano: non occorreva più abitare in un medio o grande centro urbano di un qualche paese abbastanza progredito per concedersi il lusso, non certo quotidiano, di ascoltare una ristretta selezione delle grandi opere sonore dell’ingegno umano, bastava avere nei paraggi un negozio di dischi per potersi dotare di qualsiasi genere di espressione musicale esistente e includerla nella propria personalissima libreria sonora.

Un salto non da poco per un’arte che, soprattutto nel caso delle sue espressioni più alte e complesse, da elitaria diventava bene comune, prodotto alla portata di tutti: in termini assoluti e intrinseci, una prima, cocente svalutazione. La musica, qualsiasi essa fosse, manteneva però un costo, un prezzo tale da garantirle un preciso posizionamento sul mercato e dunque, date le circostanze, un determinato valore economico. La discografia, questo il settore industriale che per più di un secolo ha gestito la veicolazione e la distribuzione musicale, è cioè riuscita, prosperando anche notevolmente, ad assicurare alle produzioni sonore un preciso valore di mercato, tale cioè da consentire ai produttori una serie di investimenti e a un intero settore economico di garantire da vivere, anche più che dignitosamente, a decine di migliaia di persone impiegate in quel business: un disco, al pari di una conquista territoriale, poteva arrivare a spostare il Pil di una nazione, e non è un caso se l’arrivo dei Beatles negli Usa, il 7 febbraio del 1964, passò agli annali, in una non casuale analogia con le operazioni militari, come il più importante sbarco musicale della storia.

Non a caso i musicisti, quando capaci di migliorare le economie nazionali, venivano insigniti di titoli onorifici e nobiliari: la discografia, al pari dei più forti settori industriali, spostava le economie. Cose che non esistono più? Non proprio, ma non sono certo i dischi il traino di un settore, quello musicale, che ha dovuto ritirarsi da un fronte per ripiegare su altri. Senza disco, sostituito dallo stream, non esiste discografia, non esistono dischi d’oro o di platino, non esistono vendite. Lo stream è mera vetrina in cui il cliente familiarizza col prodotto, decidendo poi se frequentarlo, in tutte le sue varianti possibili, o meno. Ma è del tutto anacronistico che gli enti certificatori continuino a esprimersi in termini di vendite o addirittura certificazioni discografiche, dando l’impressione di essere rimasti intrappolati in un’epoca che da un pezzo non esiste più, parlando un linguaggio che non ha più alcun corrispettivo nell’effettiva realtà delle cose.

Se nel 1998 il settore discografico italiano valeva 1000 miliardi di lire, nel giro di 25 anni il suo valore è calato di oltre il 50%, e questo a fronte di una vertiginosa crescita delle certificazioni discografiche, che in appena 14 anni, dal 2009 al 2023, sono salite per gli album da 49 a 193, di fatto quadruplicando. Si capisce bene che a un’inflazione del prodotto corrisponde, come in qualsiasi settore produttivo, una deflazione del suo valore. Dell’industria discografica, dunque, resta al più un’immagine virtuale, e la musica registrata, o quel che di essa resta, sta non proprio serenamente investendo altrove. Sarebbe dunque giunto il momento di dare nomi nuovi a fenomeni del tutto inediti: industria dello stream musicale al posto di industria discografica, stream d’oro al posto di disco d’oro, e così via.

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